Pina 3D

17/10/11 - L'omaggio di Wenders alla Bausch si chiude nei limiti di un approccio elitario e cerebrale che inibisce l'emozione dello spettatore.

Un film per Pina Bausch di Wim Wenders. Fin dall’intestazione è chiaro il senso di un’operazione che aspira a celebrare l’opera e il talento innovativo di una delle personalità più influenti nell’ambito della danza contemporanea. Scaturito da un iter tragicamente travagliato, che l’ha visto nascere come un progetto a quattro mani del regista teutonico con la Bausch, bruscamente interrotto dalla scomparsa dell’artista – avvenuta nel 2009 – Pina trova la sua essenza proprio nella volontà di Wenders di trasformare il film in una sorta di omaggio, nel quale la messa in scena dei quattro più celebri balletti (Café Müller, Le sacre du printemps, Kontakthof e Vollmond) allestiti dalla coreografa con la sua storica compagnia, il Tanztheater Wuppertal, si fonde con immagini di repertorio e testimonianze dirette dei suoi collaboratori.

Il risultato è un’incursione ellittica ed elitaria che, sospesa tra due tipologie di pubblico: quella dei cultori della materia e tutti gli altri, sceglie di rivolgersi solo alla prima immettendosi in medias res in una dimensione che, già di suo criptica, si rispecchia e raddoppia nell’approccio cerebrale dell’autore, rendendosi impenetrabile ai più. Per quanto apprezzabile, il tentativo di Wenders di aggirare i limiti della documentazione didascalica si chiude infatti in uno sguardo circoscritto a un retroterra di conoscenze date per assodate, laddove il contributo di dichiarazioni agiografiche dei vari performer e numeri di danza estrapolati dai rispettivi contesti, a malapena menzionati, si rivela nullo ai fini di una comprensione della personalità e del percorso artistico della Bausch. L’intera operazione si traduce, per il pubblico generalista, in un’estenuante ora e quaranta minuti di azioni convulse e incomprensibili. Allo stesso modo, la scelta registica di annullarsi a favore del personaggio trova la sua espressione in un’osservazione rigorosa e asettica che, lungi dallo sfruttarne le potenzialità di linguaggio, ricorre al 3D solo per qualche sporadica rottura della frontalità, vanificando così tutta la componente emotiva e impetuosa di un impatto spettacolare, che resta così incapace tanto di oltrepassare la soglia dello schermo, quanto di portarvi al suo interno lo spettatore “medio”. E, confinato nella cerchia ristretta di appassionati e addetti ai lavori, il lato più toccante della pellicola resta così limitato esclusivamente alla sua natura di tributo intimo e personale del regista e dei danzatori – veri protagonisti della narrazione – a Pina e alla sua arte: un mondo di contenuti, sensazioni e suggestioni che, tuttavia, così decodificati, non riescono a sottrarsi al limite dell’incomunicabilità.

CATERINA GANGEMI

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