Regista di film di grandissimo successo in Cina – da A World Without Thieves a If You Are the One passando per Back to 1942 (presentato nel 2012 al Festival di Roma) – Feng Xiaogang possiede delle indiscusse abilità di metteur en scène ed è come se sapesse ogni volta che film fare per incontrare i gusti del suo pubblico. Una sorta di Steven Spielberg cinese, in cui però spesso il portato ideologico – l’essere cioè, sotterraneamente o meno, al servizio della propaganda governativa – mina la riuscita dei suoi film. Grossolanamente populista – al contrario del regista di Lincoln che, anzi, si va facendo sempre più raffinato nel rileggere la storia degli Stati Uniti d’America – Feng spesso disperde le sue potenzialità in un afflato ecumenico e approssimativo, in un umanesimo non sempre sincero. In tal senso, Personal Tailor, presentato al FEFF 2014, sembra riassumere in modo quasi paradigmatico pregi e difetti del cinema del regista nato a Pechino nel 1958. Strutturato con una narrazione episodica, il film racconta la storia di quattro personaggi che gestiscono una “Dream Factory” specializzata nel realizzare – sia pure per un periodo limitato di tempo – i sogni proibiti di comuni cittadini: una donna masochista vorrebbe essere stata prigioniera dei nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale, un regista di film volgari vorrebbe fare un film d’autore, un autista di politici corrotti vuole verificare se anche lui, vestiti i panni di un potente, cadrà nella tentazione di truffe e favori sessuali. Sullo sfondo aleggia il tentativo di raccontare i vizi dei cinesi contemporanei, cercando comunque di far sorridere.
La sempiterna commedia all’italiana
Non sembra poi così assurdo vedere in Personal Tailor un qualche riferimento – o, almeno, una qualche similitudine – con la commedia all’italiana. Da un lato abbiamo l’elemento del racconto ad episodi, dall’altro vi è il tentativo di fare della satira a proposito di radicati difetti sociali con l’obiettivo di costruire delle parabole morali. Non a caso, l’episodio centrale del film è quello dell’autista cui la “Dream Factory” dà la possibilità di vestire i panni di un potente. Si accenna dunque alla corruzione della politica nel tentativo di dimostrare che anche il singolo cittadino finirà forzatamente per cedere alle lusinghe del vizio, nell’ottica proverbiale di “l’occasione fa l’uomo ladro”. Il tema della corruzione dei politici occupa spesso le pagine dei giornali in Cina, soprattutto negli ultimi anni, e non sono mancate addirittura delle condanne a morte per chi è stato accusato di aver truffato lo Stato. Vi è perciò nel film di Feng una tempistica indiscutibile e un tentativo di rilettura simbolica e amara del presente, proprio come accadeva per l’appunto nella commedia all’italiana, in cui si mettevano alla berlina dei precisi tipi sociali venuti alla luce con il boom economico. Ma Personal Tailor non riesce ad arrivare alle altezze di un Dino Risi o di un Mario Monicelli perché gli manca la cattiveria e la voglia – o la possibilità – di sporcarsi le mani. Il punto di non ritorno dell’episodio lo si può identificare nel momento in cui l’autista, vestiti i panni del politico, viene tentato sessualmente da una delle ragazze che compongono il gruppo della “Dream Factory”. La scena scorre via in un percepibile imbarazzo a metà tra il trattenuto e il pudico, tanto che – ancor prima che possa emergere qualche bassezza morale – subito sopraggiunge qualcun altro a interrompere il gioco di seduzione. È proprio da questi particolari che si coglie come Feng non possa o non voglia affondare i colpi nei difetti del cinese medio, sia per non disturbare lo spettatore, sia per non infastidire il Partito-Stato.
Il volgar regista
Sembra di poter leggere nella linea della commedia all’italiana anche l’episodio del regista di film spazzatura e commedie volgari di grandi successo che desidera fare un film d’autore. Qui la satira riesce meglio perché Feng gioca nel suo campo – e allude anche, ovviamente, a se stesso e ai suoi successi – e può anche permettersi qualche cattiveria, come ad esempio l’utilizzo della povertà a scopi più o meno artistici o la trasfusione di sangue contadino per permettere al regista – malato terminale di volgarità urbana – di recuperare una dimensione più autentica. Ma il momento più alto lo si raggiunge quando il regista, in pericolo di vita perché ha fatto uso di troppa cultura (leggendo libri, andando a delle mostre, ecc.), ha bisogno di una cura shock: il karaoke.
La natura
È l’ultimo degli episodi di Personal Tailor però a rivelare in pieno il populismo di Feng Xiaogang e a rendere più palese l’intervento in fase di scrittura di Wang Shuo, scrittore che da “arrabbiato” si è fatto con il passare degli anni più mansueto. Abilissimo gioco tra lamento funebre, protesta generalizzata e autocritica, l’episodio in questione mette in scena i quattro protagonisti della “Dream Factory” che rivolgono un lamento verso l’industrializzazione selvaggia colpevole di aver distrutto la natura e di aver inquinato l’aria. Con immagini senz’altro suggestive e qualche frase piazzata ad hoc per commuovere lo spettatore, Feng veste qui i panni del contestatore; ma, mostrando solo gli effetti dell’inquinamento e non le cause (le scelte governative che hanno permesso che accadesse tutto ciò), finisce per costruire un semplice ritratto edificante in cui si invita in modo generico lo spettatore a essere più attento verso la natura. Un auspicio semplice e immediato che riassume il “messaggio” positivo del film. D’altronde, Personal Tailor – quasi come il cinepanettone da noi – è pensato per un preciso periodo dell’anno in cui al centro vi è la necessità dello svago: il capodanno cinese.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi