Dopo il successo commerciale, ottenuto nelle ultime settimane, della ridistribuzione nelle sale cinematografiche italiane del capolavoro restaurato di Ernst Lubitsch Vogliamo vivere! del lontano 1941, ecco che approda anche Fear and Desire, realizzato nel 1953 da un allora giovanissimo Stanley Kubrick, finora inedito nel nostro Paese sul grande schermo. Un tipologia di evento, nato dalla collaborazione distributiva di QMI e Minerva Pictures, che sembra prendere piede sempre più negli ultimi tempi, forse per la sempre maggiore crisi degli incassi, forse per la sempre maggiore crisi del cinema come prodotto di qualità. Fear and Desire è in realtà un mediometraggio della durata secca di un’ora che Kubrick realizzò grazie a una produzione perfettamente in linea con quel cinema indipendente low budget del periodo. Pochi soldi, totale economia, la pellicola infatti possiede un’estetica tipica dei film di serie b degli anni Cinquanta, di quelli di genere presi in considerazione dalla critica solamente molti decenni dopo. Ma il grande regista del XX secolo non realizza un film di genere, né un horror né un film di fantascienza, perlomeno non in senso stretto, ma racconta la storia di un gruppo di soldati di una guerra non specificata (ma sembrerebbe a conti fatti la seconda) intrappolati in territorio nemico dove l’avversario ha la loro stessa identità.
Sono già prefigurati i classici temi narrativi kubrickiani, come la paura, la violenza, l’antimilitarismo, le debolezze umane di un genio registico ancora acerbo. Si nota quel guizzo sperimentale del cinema dell’epoca, ma l’opera non può dirsi completamente riuscita, tanto che lo stesso regista anni dopo avrebbe fatto ritirare le poche copie in circolazione. Kubrick stesso infatti fu molto duro nei confronti di questo film, tanto da appoggiare tutta la critica che stroncò la pellicola per una serie di difetti effettivamente riscontrabili. Infatti Fear and Desire, realizzata dopo tre cortometraggi, risulta alquanto grossolano, complice l’economia della produzione, pur essendo però già chiara l’idea intellettuale e morale del suo autore; approssimativo sotto l’aspetto tecnico, una sceneggiatura (di Howard Sackler) che ricalca una eccessiva verbosità di stampo teatrale, un uso della macchina da presa ingenuo e tipico di chi vuole dimostrare a tutti i costi la conoscenza delle varie tecniche di ripresa, ridondante di campi e controcampi, soggettive, etc. Notevole però risulta l’apparato fotografico dello stesso Kubrick: un bianco e nero crudo, pieno di ombre e luminoso al tempo stesso. Pellicola dal valore filologico che va vista comunque considerato il nome di chi l’ha firmata, ma soprattutto una buona occasione per comprendere un altro tassello e un altro pezzo del cinema di Stanley Kubrick. Una curiosità: fra gli interpreti spicca nel ruolo del soldato Sidney un poco più che ventenne Paul Mazursky, futuro regista molto popolare a cavallo fra la fine degli anni Sessanta e Settanta con opere cult come Bob & Carol & Ted & Alice, Harry e Tonto, Una donna tutta sola, e qui al suo primo ruolo d’attore.
ERMINIO FISCHETTI