Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati: racconto debole e malfermo, superficiale e affrettato, per un’ennesima (e malcelata) fuga dalla realtà
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
15/10/10 – Che alla fine avesse ragione Marco Muller, rifiutando l’ultimo film di Pupi Avati per il concorso di Venezia 67? Una sconfinata giovinezza è un film arruffato, infelice, e soprattutto affrettato. Il difetto principale risiede nell’ormai endemica rapidità di scrittura dell’autore bolognese, che ai ritmi di due film l’anno spesso presta pochissima cura alla “profondità di campo” dei suoi racconti, non conferisce loro, cioè, un’adeguata collocazione sociale, una motivazione profonda, trascura qualsiasi idea di “economia narrativa”, e muove due, massimo tre personaggi principali su uno sfondo generico raramente veritiero. Non si tratta di una svolta, come qua e là si è detto, per la creatività avatiana. L’Alzheimer è l’ultimo approdo, il più estremo, di quella poetica del rifiuto del reale che da anni caratterizza l’opera di Pupi Avati. La regressione, anche se qui in forma patologica, il nascondersi dal vero e la fuga dalle responsabilità sociali hanno accompagnato tutti gli antieroi del suo universo. Adesso, il rifiuto si fa addirittura ontologico, oltre la volontà umana. Ma quel che manca tragicamente al film è una vera costruzione drammaturgica, un’incarnazione dei personaggi, una reale ragion d’essere, una capacità di sintesi.
Chi sono Lino e Chicca? Sono un giornalista sportivo e una professoressa universitaria, ma potrebbero essere chiunque altro. Il loro contesto familiare è alto-borghese e vagamente antipatico, ma non vi è un solo personaggio secondario che si caratterizzi per senso e collocazione nella catena narrativa. L’aggressività dell’affetto da Alzheimer non è indagata, ma solo brevemente mostrata in funzione di una svolta narrativa dove, come nella più classica delle fiabe, i “cattivoni” del contesto separano i due innamorati. E’ il grado zero della narrazione, dove temi pur dolorosi si trasformano in elementari funzioni narrative per far procedere il racconto. Ai limiti della narrazione seriale televisiva, che trova la propria ragion d’essere solo nel proseguimento di se stessa. Il racconto avanza infatti per sbalzi e sviluppi occasionali, non necessari, secondo una pratica purtroppo ricorrente nel cinema di Avati, ovvero il puro e superficiale affastellamento narrativo. La rapidità avatiana porta con sé anche piccole grandi brutture di vera e propria scrittura; dialoghi di rara faciloneria, spiegoni a carattere medico raffazzonati e un po’ ridicoli, chiusure di scena in cui le “battute di servizio” son tirate via oltre il livello di guardia. Tanto che non sai se è più colpa dello sceneggiatore, dotato di scarsa fantasia e fluidità di scrittura, o del montatore che ha connesso brutalmente una sequenza all’altra.
In tutto questo, l’Italia odierna, che tanto orrore fa ad Avati, sparisce letteralmente. O meglio, è narrata tutta nel privato, tra le quattro mura di casa, e nei rari momenti in cui il racconto mette il naso fuori, la cattiveria del nostro presente è descritta secondo coordinate generiche e vagamente anni ’50. Peccato, perché in tale contesto affonda anche un grandissimo attore come Fabrizio Bentivoglio, mai credibile, spesso patetico e palesemente a disagio.