Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Che fine ha fatto Osama Bin Laden? di Morgan Spurlock: documentario al crocevia di diversi codici narrativi, tra postmodernità e vero spirito americano
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
16/07/10 – A vedere e rivedere Morgan Spurlock alle prese con le sue disavventure cinematografiche, viene in mente Bruce Springsteen. Lo stesso spirito profondamente americano, la stessa paciosa voglia di affrontare dolorosi conflitti con facili soluzioni e approccio naif. Lo stesso spirito country. Andare fino in Pakistan a parlare di wrestling con gli abitanti del posto, per dimostrare quanto il dialogo e il desiderio di conoscersi possa essere un’arma forte, più forte di tutte, per abbattere barriere ed evitare tragedie internazionali. Qualche anno fa Spurlock si è divertito a sputtanare la catena McDonald’s con Supersize me, ma secondo me le domeniche pomeriggio in casa le passa a strafogarsi di popcorn guardando lo sport in tv. Meno nocivo per la salute, forse, ma altrettanto globalizzato. Della new wave documentaria che ormai coinvolge il cinema a tutte le latitudini, Spurlock è uno degli autori onestamente più simpatici. Senza grandi ambizioni (a differenza di Michael Moore, che a ogni nuova opera vorrebbe spiegare il mondo intero al mondo intero), con bello spirito avventuristico, sovrapponendo il cinema all’idea di sfida e di prova con se stesso, Spurlock adotta in realtà, nel suo secondo film, Che fine ha fatto Osama Bin Laden? un linguaggio narrativo spurio, che esula dal puro documentario ma che non approda nemmeno alla docufiction. Per buona parte del racconto va a caccia di realtà nei maggiori paesi dell’Islam, ma al contempo ricorre spesso a sequenze palesemente preordinate, talvolta ai limiti della ricostruzione in fiction. Non è felice (perché pesantemente didascalica) la cornice della gravidanza della sua compagna, così come non risulta felice il linguaggio adottato per quei brani: Spurlock e la sua compagna sembrano proprio recitare un ruolo, e anche piuttosto male.
Ricostruzione fiction in tempo reale, si direbbe. Ma la riorganizzazione del materiale narrativo in chiave non-documentaria appare più evidente in certi brevi passaggi, come per esempio nell’inquadratura delle vacche in Afghanistan con ferrovia sullo sfondo, e Spurlock che entra in inquadratura passeggiando bonariamente. Si tratta di effetto puramente comico, ricreato in una vera sede di scrittura (magari avvenuta cinque minuti prima o sull’ispirazione del momento, chissà… ma comunque avvertibile), che si fonda su un utilizzo strategico degli strumenti filmici. Elaborazione narrativa preesistente al reale che si vuol documentare. Il pedale della contaminazione postmoderna è vistosamente spinto in tutti i brani di ricostruzione tramite animazione, o nel leit-motiv della ricerca di Bin Laden ridotta a videogioco. C’è di tutto nel nuovo documentario di trend statunitense. C’è la realtà dei volti, dei corpi e delle voci, e c’è il cartone animato, c’è il videogame e c’è la fiction. La tendenza, pare, si radica nel tentativo di rendere più gradevole e appetibile il codice-documentario, tradizionalmente ostico e rifiutato dal grande pubblico. Spurlock ci riesce: è furbetto, accattivante, tutto fondato, tra l’altro, su un sentimento di facile e spudorato umanitarismo universale. Volemose bbene, insomma. Ma, va anche detto, il “buon documentario” va cercato altrove. Perché in tutto questo rutilare di linguaggi narrativi diversi, forse chi scolora di più sono proprio le voci della realtà che si vorrebbe narrare.