Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
La donna della mia vita di Luca Lucini: perfetto esempio di neo-convenzione italiana. Racconto corretto, elegante, mai volgare. Ma l’anima dov’è?
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
03/12/10 – Ecco un classico esempio del neo-canone convenzionale dell’attuale commedia italiana. La donna della mia vita ne presenta tutti i tratti, non manca nulla. Altissima professionalità, buoni attori, confezione impeccabile, racconto che non perde un colpo. Garbato umorismo mai volgare, un’impostazione con target piuttosto definito (qua, il medio spettatore italiano di buone letture, prevalentemente femminile dai 30 anni in su), ispirazione che vira verso la brillante commedia francese dei rondò sentimentali a tutti i livelli, di età e di posizione sociale (con esclusiva collocazione, però, alto-borghese: al massimo si arriva alla contabile d’azienda…). Uno svolgimento tutto avviluppato intorno a una famiglia, un vago e improbabile romanzesco (rivalità tra fratelli, orchestrata da una madre che scambia i figli tra i suoi due mariti), il ripetersi di desideri di fuga in età inconsuete (ennesima crisi coniugale per Stefania Sandrelli, che da L’ultimo bacio in poi è prigioniera di rapporti matrimoniali disastrosi in età matura), un ostentato desiderio di non-italianità, che mira al respiro e gusto internazionale in confezione sostanzialmente anodina. E l’intenzione di raccontare piccole grandi verità sulla vita, tramite una torsione estetica che tenta di spingere il pubblico verso l’identificazione in contesti, però, inverosimili e comunque elitari, visto che in Italia l’alta borghesia riguarda davvero pochi eletti. La verosimiglianza dell’inverosimile. Dove, di realtà, in fondo se ne respira pochissima, a cominciare dalle sempre più asettiche ambientazioni.
E’ il modello-Cristina Comencini (qui solo soggettista), che con gli anni si sta definendo come il prodotto medio più impercettibilmente solido della nostra attuale cinematografia. Racconti piuttosto simili a se stessi, di opera in opera, di autore in autore, che si collocano in una posizione mediana di buoni incassi e che permettono al pubblico di scaricarsi la coscienza se poi a Natale si spanza di risate con i cinepanettoni. Ho visto “Natale in Siberia”, ma ho visto anche “La donna della mia vita”. Scherzi a parte, è un cinema dignitosissimo, molto professionale, che da anni tiene in piedi un’inesistente industria nazionale e che sta contribuendo alla costruzione di un piccolo ma rinnovato star system italiano. Che si muove anche su sagge considerazioni di marketing, terra nuova nel nostro paese (mettere insieme Alessandro Gassman e Luca Argentero come fratelli in competizione, ad esempio, è un’ottima mossa di astuta organizzazione). Tuttavia, il racconto come sempre lascia un po’ perplessi. Perché è godibile, elegante, non banale, ma avvitato su percorsi consueti e chiusi in una dimensione diegetica prettamente autoreferenziale. Personaggi che aderiscono a schemi e che non adombrano esseri umani, bensì pure funzioni narrative. Cinema che evoca altro cinema, e che tiene lontana, lontanissima, a distanze siderali la realtà. Racconto che non evoca né modellizza, ma ripercorre schemi privi di risonanza nel reale. Un cinema, incredibilmente, già astratto e manierato dopo pochissimi anni di autodefinizione, ovvero adagiato sulla riproposizione di un repertorio di figure e temi consolidati come cliché o maschere. In assoluto niente di male, ribadiamo. Quel che lascia amareggiati, per l’attuale cinema medio italiano, è la tragica mancanza di varietà d’offerta.