Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
La bellezza del somaro di Sergio Castellitto: iniezioni di eccentrico in una struttura narrativa rodatissima. Materiali noti, ma fuori dalla banalità
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
24/12/10 – Da queste pagine si è più volte parlato della neo-convenzione della commedia italiana degli ultimi dieci anni. Tematica familiare e/o generazionale, collocazione sociale alto-borghese, scrittura di alto profilo e di smaccata (spesso ruffiana) brillantezza, soprattutto per quel che attiene ai dialoghi, e buone professionalità attoriali. In quell’ormai robusta definizione anche La bellezza del somaro radica la propria struttura narrativa. Ennesimo ritratto di una comunità benestante, che cerca di coprire più o meno tutti gli attuali umori culturali del nostro Paese. L’intento dichiarato, sul versante dei personaggi adulti, è di prendere in giro un po’ se stessi, ovvero una comunità vagamente intellettuale di alto-borghesi di sinistra, tutti un po’ ammaccati e inaciditi verso la vita, che subiscono terribilmente i figli. Sull’altra sponda, i giovani, che restano giustamente sfocati nelle loro profonde verità psicologiche, in quanto pianeta estraneo per padri e madri che non cercano nemmeno più di capirli, ma li assecondano e nient’altro. Margaret Mazzantini, in sede di sceneggiatura, lavora molto finemente sulla costruzione drammaturgica, e aderisce a una struttura teatrale senza alcuna remora. I tempi comici, le battute umoristiche, i fitti scambi di dialogo, l’interazione e composizione delle azioni dei personaggi nelle singole sequenze rispecchiano in tutto un andamento da teatro brillante. A portare “cinema” e scongiurare il pericolo del teatro filmato, ci pensa Sergio Castellitto in sede di regia, che vivacizza il racconto tra estrema mobilità della macchina, addirittura qualche cenno di montaggio analogico e almeno un piano-sequenza benissimo orchestrato. Scrittura e regia, insomma, vanno decisamente di pari passo, una funzionale all’altra.
Certo, tutto il racconto è spudoratamente sopra le righe, ma risponde a una scelta ben precisa, a monte, che stavolta asseconda e valorizza benissimo anche la predisposizione di Laura Morante per i sovratoni. Se alla fine la moraletta magari è facile e un po’ scontata, tuttavia è innegabile che la costruzione narrativa sia ottima, con qualche cedimento di coerenza solo nella seconda parte, in cui il meccanismo di “disvelamento delle verità” tramite un personaggio alieno (Enzo Jannacci) si dipana con svolte psicologiche un po’ forzate e affrettate (la svolta della moglie, soprattutto). Magari c’è un po’ troppo di tutto, questo sì. L’affastellamento di tematiche, spunti, riferimenti colti (molti, davvero troppi, da Cechov a Teorema di Pasolini, da certi facili debiti a Freud e Lacan a Ingmar Bergman) testimonia una volontà esasperata di infarcire il racconto per renderlo “alto”, e un’eccessiva, un po’ didascalica consapevolezza di discorso. Tuttavia, quel che resta molto apprezzabile è il tentativo di iniettare umori acidi e survoltati in una struttura popolare, di adottare strategie narrative eclettiche che mantengano il racconto nella convenzione ma che al contempo lo sollevino da essa. Si veda, ad esempio, l’utilizzo funzionalissimo anche della gag più greve e di effetto immediato (il culo sulla torta con le candeline, la pizza lanciata in testa, la strizzata di testicoli, l’ennesimo uomo ammanettato al letto…). Dimostrazione che una sapiente scrittura riesce a raggiungere l’equilibrio narrativo anche nella sfrenata eterogeneità dei materiali. Il tentativo è notevole. Nel mainstream italiano capita di rado. Bravi.