Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Kill Me Please di Olias Barco: notevole racconto cinico e surreale, che però non regge fino alla fine
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
21/01/11 – Dal Festival di Roma, dopo diversi anni piuttosto anonimi, giunge finalmente un apprezzabile vincitore. Kill Me Please è una commedia, raggelata e raggelante, nutrita di tanto umorismo cinico e cattivo da tipico prodotto europeo “contro” e indipendente. Parla di vita e di morte, rasenta il tema dell’eutanasia ma non lo accoglie mai (Dio ce ne scampi, per l’appunto) come materiale morale, bensì come spunto di narrazione paradossale e al contempo di riflessione filosofica. Il film è infatti tutto giocato, dall’inizio alla fine, sul filo del paradosso, sull’ossessivo evitamento della morte da parte di un gruppo di personaggi pur raccolti in una clinica per ottenere un soave suicidio. E’ costruito, innanzitutto, ma non solo, sulla scrittura. Di dialoghi, di personaggi, di composizione corale priva di dispersione o di scene e caratteri di servizio. Cinema ben scritto, ben calibrato nell’unità tra scrittura ed estetica. E’ apprezzabile, soprattutto, la capacità di tenere i dialoghi e le figure in un’atmosfera sospesa e ghignante, che rovescia in comico, tramite il rallentamento, la ripetizione, la ricercata sentenziosità di molti dei passaggi narrativi e delle frasi scolpite nella roccia del dottor Kruger, ciò che convenzionalmente meno comico potrebbe essere. Ovvero la riflessione, mai declamata né stentorea, sulla vita in quanto “oggetto”.
Intendiamoci, di commedie nere che giocano coi morti e coi santi ormai il cinema è stracolmo, e non soltanto negli ultimi vent’anni (ovvero quando il tasso di “cinismo narrativo” si è fatto sempre più forte e scatenato). Ma Kill Me Please scava più a fondo, risale alla pura radice di questioni ontologiche. Se si desidera morire, perché l’istinto di sopravvivenza, intimo e presociale, non demorde? Se la vita ha davvero un senso, perché gli ultimi desideri prima della morte si rivelano, quando narrati, terribilmente stupidi e patetici? Non opera morale, né tantomeno didascalica (quantomeno per tre quarti), ma opera che solleva domande. Se il racconto non regge fino in fondo, ciò è imputabile a una seconda parte notevolmente più debole, dove tutto il buon lavoro della prima metà, giocata tra paradossi ed esilaranti depressioni, sfocia in una spirale di violenza altrettanto sospesa e surreale, ma priva di convincenti motivazioni narrative. L’impazzimento generalizzato, la minaccia dell’esterno, avvengono repentini e senza vero sviluppo di racconto, e fa capolino il sospetto della pura provocazione. Le gag restano esilaranti (una su tutte, l’infermiera rinchiusa nella bara gioca con lo spettatore a livelli inauditi), ma iniziano improvvisamente a procedere un po’ ognuna per conto proprio, spinte più sull’onda di una contraddittoria costruzione antinarrativa ed episodica. Quasi da “cinema delle attrazioni”: ogni sequenza un rilancio di posta, un’ulteriore sfida alla fruizione, con notevole dispersione, però, di coerenza narrativa. Così come il racconto si fa inutilmente didascalico nel pistolotto finale del dottor Kruger, abbinato al canto finale dell’inno nazionale francese, dove senza una reale ragione il film pare d’improvviso volersi aprire a riflessioni contingenti, e non universalizzanti.
Tuttavia, c’è da stare allegri (?). Kill Me Please diverte, e molto. E la scrittura comica è di altissimo profilo.