Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
I fiori di Kirkuk di Fariborz Kamkari: Raffaello Matarazzo in terra irachena, terribile fumettone che cerca scappatoie in una (simulata?) ingenuità
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
26/11/10 – Altre volte, da queste pagine, è capitato di parlare della difficoltà, in un ottica prettamente occidentale, di distinguere tra ingenuità di scrittura, confini del didascalismo e dichiarata intenzione di convenzionalità, di fronte a opere che provengono da culture lontane. Ovvero, se e quanto sia possibile attribuire la disarmante faciloneria e la strabordante convenzionalità di sceneggiatura all’attuale, mancata emersione, in alcuni paesi, di concetti culturali come, per l’appunto, “didascalico”, “fumettistico”, e all’opposto “racconto per immagini”, che utilizzi cioè il dialogo e il contenuto come mezzo, e non come fine. In altre parole, si può definire convenzionale un linguaggio filmico-narrativo in una cultura che, forse, non prevede al momento altre forme di linguaggio popolare? Si può tacciare una sceneggiatura di convenzionalità se i cliché, in un dato sistema culturale, non sono ancora percepiti come tali? Il quesito è notevole, e costeggia anche rischi di categorizzazione vagamente razzista. Ma è pur vero che davanti a opere come I fiori di Kirkuk cadono letteralmente le braccia, poiché, sotto uno sguardo occidentale che è già ben oltre il postmoderno, è francamente inaccettabile una tale rozzezza di costruzione narrativa, che incastona un banalissimo triangolo amoroso, composto da personaggi tagliati con l’accetta (ma di quelle belle grosse) in un contesto storico tragico e meritevole, questo sì, di riesumazione nella memoria collettiva. Perché raccontare della tragedia dei curdi in Iraq, sotto il regime di Saddam Hussein, è cosa nobilissima e necessaria, ma su un piano estetico non tutto è ammissibile in nome della giusta causa.
E allora svestiamo i panni dei corretti antropologi e diciamo, senza troppi giri, che la sceneggiatura de I fiori di Kirkuk è tristemente indifendibile, che tramite un’apprezzabile veste formale da docufiction il racconto si mantiene pure avvincente (nell’ordine di un avventuroso fitto di peripezie) ma si regge su una poetica matarazziana di amore contrastato dei più banali, fondato sul più prevedibile e marchiano conflitto: un amore che tenta di travalicare le barricate tra iracheni e curdi. E poi il terzo incomodo, cattivo ma anche buono, però poi cattivo, ma poi in fondo buono, però cattivo… E intorno, un carosello di crudeli militari da operetta, che si spanzano di risate di fronte alle violenze più atroci come giganteschi Gambadilegno in carne e ossa. Poiché Fariborz Kamkari, l’autore, è un curdo apolide nato in Italia, ci sia concesso di pensare che forse stavolta lo sguardo puro e ingenuo di una “cultura altra” non c’entra proprio nulla, e che, al contrario, le scelte sono molto consapevoli, nell’ordine di un conclamato didascalismo ricattatorio che si è nutrito di troppe visioni occidentali, e che ne ha assunto le strutture narrative più macroscopiche e schiaccianti. Ribadiamo, l’intento è nobilissimo, ma se il racconto non è corroborato da specifiche riflessioni e incarnazioni, tramite storia e personaggi, di una vicenda reale, non resta che lo scheletro della convenzione di una ridicola storiella d’amore. E la violenza storica, così narrata, non appartiene più a un popolo, ma può aver avuto luogo ovunque, in qualsiasi tempo, nelle vite di anonimi chiunque.