Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
City Island di Raymond De Felitta: quando la scrittura cinematografica domina su tutto il resto, con esiti positivi, quasi entusiasmanti
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
02/07/10 – City Island è una gran bella commedia. Divertente, a tratti spassosa, dolorosa, malinconica, qua e là anche commovente, e non tanto nella prevedibile girandola finale di agnizioni, quanto in alcuni passaggi meno scontati, in cui l’amarezza del vivere, dei compromessi quotidiani, dell’impossibile elaborazione del passato emerge ben vivificata da dialoghi brillanti e sì talvolta sofisticati, ma mai ostentati (vedi tutti gli incontri tra Andy Garcia ed Emily Mortimer). E’ innegabile che il film di Raymond De Felitta viva di scrittura, secondo una fertile linea produttiva del cinema statunitense nel suo ambito indipendente, che oscilla tra il Sundance e il Tribeca Festival (dove l’anno scorso City Island ricevette il premio del pubblico). Territori creativi in cui l’opera ben scritta, o meglio correttamente scritta, ben interpretata, con costante riconoscimento di assoluta priorità ad attori e narrazione, e con netto rifiuto di inutili sfarzi produttivi, s’identifica in un canone ormai piuttosto rigido e codificato. De Felitta, però, fa davvero tesoro nel senso più efficace della preminenza affidata alla scrittura, e dimostra quanto sia possibile confezionare un’opera assolutamente godibile pur rimestando in filoni narrativi frusti e abusati. Nell’ultimo decennio, infatti, il tema della famiglia disfunzionale americana è stato al centro di decine e decine di opere, che hanno esaurito, saturato e poi cristallizzato la commedia su esso fondata. Tuttavia, De Felitta ha la felice intuizione di radicare il proprio racconto non su una generica famiglia americana wasp, bensì su un nucleo italo-americano, mettendone in luce sì qualche stereotipo, ma più vicino alla verità della categoria morale che del mero e banale ingigantimento grottesco. Cosicché, più che semplicemente disfunzionale, la famiglia dei Rizzo appare “semplicemente” agitata da vere passioni ancestrali.
Della retorica italo-americana De Felitta fa un brillantissimo uso ironico in varie direzioni: il mito autoreferenziale del Padrino e di Marlon Brando, la sacralità della famiglia e l’inviolabilità di moglie, ma soprattutto di figlia, la figura paterna faticosamente autoritaria ma in realtà succube della moglie, il senso di colpa di matrice cattolica che conduce a piagnosi scioglimenti con rivelazioni finali tra abbracci e lacrime. Da un lato gusto per la notazione sociale, dall’altra avvertibili reminiscenze di classiche costruzioni drammaturgiche, tra grecità e latinità. Commedia degli equivoci, incesti pericolosamente rasentati, segreti che s’intrecciano ad altri segreti e provocano incomprensioni e reazioni a catena come nel miglior Eschilo, e sul finale fa capolino pure il melodramma all’italiana. Ma il maggior pregio di City Island sta nell’evocare tali e tanti fantasmi culturali senza troppa evidenza, senza prendersi troppo sul serio e secondo scelte di scrittura che rifiutano il grottesco più manicheo, aderendo bensì a un sentitissimo amore per i propri personaggi. Narrati con affetto ma mai con ipocrita indulgenza. Un po’ ridicoli e patetici ma anche veri e adorabili, sorretti da dialoghi di rara finezza espressiva. Fuori e dentro la convenzione.