Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Che bella giornata di Gennaro Nunziante: il ritorno di Checco Zalone, ovvero quando la forza di un comico televisivo si disperde al cinema
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
14/01/11 – Perché è così difficile calare i comici tv italiani attuali in un contesto cinematografico validamente narrativo? Perché, decontestualizzati dalla cornice televisiva, appaiono sempre più spesso tragicamente pallidi, innocui, vaganti da una sequenza all’altra in cerca di una reale motivazione di racconto, che mai arriva? Checco Zalone non è il primo, e non sarà l’ultimo. Sia chiaro, il contesto narrativo di cui qui si lamenta l’assenza non consiste in una obbligata necessità di “storia” strutturata e ad ogni costo significativa. I nostri migliori comici anni ’50 (ma anche anni ’80) si muovevano in vicende cinematografiche che spesso erano poco più di un pretesto. Totò, uno su tutti, ha realizzato uno dei suoi capolavori su un trito canovaccio ispirato a una delle sue canzoni più note (Totò Peppino e la malafemmina). L’episodicità, l’occasionalità pretestuosa non sono valori negativi a prescindere. Il problema sta tutto nell’identità comica dei nostri guitti attuali. Che spesso non sono comici ex-teatrali, né nati al cinema, ma per l’appunto in tv.
Dove il tormentone e la storpiatura linguistica più elementare (vezzo sempre più ricorrente nella generazione Zelig) hanno una loro ragion d’essere, un effetto immediato, difficilmente esportabile in sceneggiatura cinematografica così com’è, “puro e duro”. Troppo debole per sorreggere l’impalcatura narrativa sia pure di un filmetto rapido e senza pretese. Che bella giornata fa ridere pochissimo, questo è il dato più saliente. Perché il personaggio di Zalone non s’inserisce in un contesto narrativo che abbia una sua vera ragion d’essere. Ma soprattutto, perché le battute son buttate via. O meglio, la forza comica del tormentone e della storpiatura, del petardo immediato che fa ridere in tv, mal si coniuga al dialogato, alle necessità anche performative del dialogo cinematografico. Buona parte delle battute di Zalone, infatti, svaniscono nel botta e risposta con gli altri personaggi. Difetto, forse, imputabile anche alla debolezza di scrittura delle “spalle” del comico: una ragazza araba che sa solo strabuzzare gli occhi, qualche debolissima macchiettona (il cardinale di Solenghi, il maresciallo di Marescotti, l’amico della security…), e qualche colorito regionalismo visto e rivisto.
Ma ancor meno convincente è il tentativo di corroborare la classica prova invadente del comico di turno con un vago intreccio di risonanza attuale. Tutta la macrostruttura narrativa del complotto terroristico risulta davvero poco più di un’occasione narrativa, tirata via e sostanzialmente inutile. O meglio, appare troppo costruita per un puro e occasionale canovaccio a servizio del comico, e troppo poco significativa per sollevare il film verso la cosiddetta “commedia di costume”. Poiché la comicità di Zalone, al momento, non va più in là della provocazione linguistica e dello sberleffo ai luoghi comuni sui meridionali, il matrimonio tra figura grottesca e realtà è forse un po’ prematuro. Molto più valido, forse, sarebbe stato paradossalmente un contesto narrativo più anodino, meno definito, che mettesse in luce il comico e nient’altro. Come nei migliori Totò, per l’appunto. Perché così com’è, invece, Che bella giornata non trova né una sua dimensione narrativa nel puro comico, né arriva alla struttura di una pur superficiale commedia di costume.