(Parola al cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura a cura di Massimiliano Schiavoni)
Stranissima la genesi di Tutti al mare. Qualcuno si aspettava un omaggio a Casotto di Sergio Citti, film a suo modo “di culto”, ma anche poco popolare, poco ricordato, stroncato in modo miope alla sua uscita? Opera, oltretutto, appartenente a un autore appartato e lontano dai riflettori del mainstream? Opera che nella memoria collettiva è adesso molto amata, ma di certo non da un pubblico vastissimo? Nessuno, credo, se lo sarebbe aspettato. Perché solitamente i remake si appuntano, anche nel nostro cinema, su film di larghissima presa e risonanza nelle memorie del pubblico. Onore al merito, comunque, perché magari intanto qualcuno si andrà a vedere o rivedere l’originale. A livello di racconto, la scelta di Tutti al mare pare sia quella di ereditare dall’originale la struttura divagante ed episodica, ben orchestrata in un progressivo intrecciarsi e scontrarsi tra i vari nuclei narrativi, e il gusto (secondario) per il surreale. Ma l’eredità diretta finisce lì, poiché nel nuovo film il discorso è avvolto in un’intenzione scopertamente allegorica, e assai più tendente alla commedia sociale. In Casotto c’era la romanità, c’era la conclamata sgradevolezza di corpi e situazioni, ma il racconto non virava mai verso la resa di personaggi-strumento di categorie sociali. Narrazione più universale, più ontologica, sospesa e metafisica. In Tutti al mare, invece, si avverte una maggiore necessità di calare le varie vicende nella cosiddetta “Italia di oggi”, sia pure tramite un racconto a frammenti e una generale rarefazione dei caratteri.
A partire dalla bandiera italiana stirata e piazzata sull’asta a sventolare in apertura, per chiudere col finale in cui l’Italia “si ripulisce” verso sera, anima doppia di un popolo cialtrone che all’occorrenza ama camuffarsi da gran signore. Così come molti dei personaggi che affollano il chiosco sulla spiaggia è rappresentativo di una precisa fetta sociale dei nostri giorni, un po’ col metodo del “bilancino”: così c’è la coppia lesbo, c’è la diva televisiva, abbondano gli extracomunitari o gli europei in cerca di lavoro e di matrimoni di comodo… A Sergio Citti, di tutto questo, non importava assolutamente nulla. Certo, si può rivendicare l’indipendenza della nuova opera. Ma la commedia dei rapidi caratteri sociali mal si sposa al surreale, questo sì derivante dall’originale, che pure si è voluto mantenere in altri personaggi.Dunque, racconto ibrido, sbilenco, che però proprio in virtù di questo conserva un suo fascino e un suo valore di rottura rispetto al canone mainstream venutosi a creare negli ultimi anni del nostro cinema. Di fronte alla commedia “opaca”, garbata, innocua come un’aspirina, perfettina e scritta seguendo il manuale di sceneggiatura delle “buone maniere”, canone dominante nel cinema italiano attuale, fa comunque piacere vedere un giovane autore che flirta con sgradevolezze e malinconie dimenticate. Certo, tutto è proporzionato, e la sgradevolezza anni 2000 non è nemmeno paragonabile agli umori acri di Sergio Citti (qua, dei corpi mostruosi dell’originale non vi è traccia, né di nipotine “vendute” al migliore offerente, né di gelati spiaccicati sotto a piedi scottati, e via dicendo…). Però, nell’intima imperfezione narrativa di Tutti al mare risiede la sua stessa ragion d’essere. E, chissà, magari tra qualche tempo lo ricorderemo per aver dato il via a una riscoperta di altri modi di narrare, alternativi alla mortificante commedia anodina di questi anni. Speriamo.