Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Manuale d’amore 3 di Giovanni Veronesi: parata di attori italiani e internazionali, che diventano “sceneggiatura di se stessi”, solo in virtù del loro status divistico
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
04/03/11 – Negli anni ’60, nel momento di massima fioritura della commedia all’italiana, nasceva e riscuoteva ampio consenso di pubblico anche il sottogruppo del film a episodi. Ottimo espediente per risparmiare un po’ sui cachet degli attori, e al contempo metterne insieme un bel gruppo, così da attirare un vario pubblico nei suoi diversificati affetti per questo o quell’attore. E’ pur vero che di frequente il film a episodi si tramutava nella “fossa nera” dei soggetti rifiutati, debolissimi canovacci, o lungometraggi abortiti messi a servizio delle star, per lucrare su di esse narrando poco o nulla, e col minimo sforzo creativo. Negli anni 2000, in Italia il processo produttivo del rinato film a episodi si è un po’ rovesciato, ma la sostanza appare la stessa.
Gli attori sono assoldati sotto forma di ammucchiata, magari si risparmia un po’ meno sui cachet, si punta su qualche nome a effetto-sorpresa (in molti ancora crediamo che in Manuale d’amore 3 reciti in realtà il fratello gemello, tenuto finora segreto, di Robert De Niro), e alle sceneggiature, semmai, pensiamoci dopo. Pensiamoci dopo, secondo una limitata gamma di varianti combinatorie. In realtà, nella sua epopea amorosa a capitoli Giovanni Veronesi era partito da basi molto più solide, qualche anno fa. I quattro racconti del primo “manuale”, pur brevi e limitati, indovinavano però un apprezzabile tono agrodolce. Nel secondo, emergeva una nota dominante di politicamente corretto, che tuttavia non inficiava più di tanto su almeno tre dei quattro segmenti narrativi. Stavolta, il product placement è essenzialmente quello operato sugli attori. Piazzati in tre racconti che non presuppongono nulla se non la proposizione degli attori stessi.
Nell’episodio di Scamarcio, e soprattutto in quello di De Niro, non c’è commedia, non c’è dramma, non c’è, in fin dei conti, nemmeno commedia romantica, tanto gli intrecci sono elementari e privi di un pur minimo conflitto narrativo. Si salva, come sempre, Carlo Verdone, e si salva in virtù di una meccanismo tipicamente italiano anni ’60, ovvero la prova d’attore che riscatta un canovaccio generico. Anche se, col passar degli anni, le storie che Veronesi affida a Verdone sono davvero troppo uguali a se stesse, oltre il consueto marchio di fabbrica che un attore-maschera può legittimamente portarsi appresso. Stavolta più di sempre, Verdone somiglia incredibilmente a un inaspettato erede di Renzo Montagnani, il maschio italico attempato con voglie di trasgressione frustrate dal ripetuto incontro, di film in film, con donne sessualmente pazze. Episodio divertente e più riuscito degli altri anche perché palesemente più costruito in sede di sceneggiatura, ma che riesuma impensabilmente i canoni della commedia sexy, forse per la prima volta in modo così diretto.
Visto il fortissimo potere contrattuale della Filmauro per questi film ad ammucchiata di attori, sarebbe preferibile sfruttare meglio l’ottima occasione e porre più attenzione alla scrittura, come ancora Veronesi faceva fino a qualche anno fa. Per mandare a casa il pubblico col ricordo di essersi fatti due vere risate, magari anche banali e risapute, e non con la sensazione di aver visto passare attori, uno dopo l’altro, a rappresentare se stessi.