Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Another Year di Mike Leigh: il metodo alla Leigh che, dirigendo, scrive
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
11/02/11 – Se per scrittura cinematografica intendiamo l’atto vero e proprio di creazione compiuto dalla macchina da presa al momento della sua messa in funzione, e non la scrittura di un copione da trasporre in immagini in un secondo tempo, probabilmente il cinema di Mike Leigh è quello che si avvicina di più attualmente a un’idea di “macchina-che-scrive-da-sola”, senza supporti preesistenti. Girare è scrivere, recitare è scrivere. Raro esempio, almeno nell’attuale panorama mondiale, di cinema di ricerca non tanto sul linguaggio tecnico, quanto su quello propriamente narrativo. Non in chiave semiologica come Charlie Kaufman, bensì alla ricerca di una nuova forma di mimesi. Nuova e al contempo arcaica, preistorica, prima della stessa mimesi. Non si sa in quale misura il metodo-Leigh faccia realmente a meno della sceneggiatura, né quanto sia affidato all’improvvisazione degli attori. Resta il fatto, comunque, che il metodo dichiarato è tale, e che in buona parte ciò è percepibile anche sullo schermo.
In Another Year ciò è ravvisabile soprattutto nei primi due capitoli, e in particolare nel capitolo estivo, in cui il barbecue in giardino è punteggiato di un dialogato ricco di battute ironiche da puro colloquio. Quelle battute vagamente innocue che, mentre parliamo, magari fanno ridere, ma ascoltate dallo schermo mortificano quasi. Qual è lo scopo, la finalità estetica di un tale approccio? Un estremo realismo, come molti dicono di Leigh. Un’estrema rabbia, molto più probabilmente. Perché tramite quei dialoghi per buona parte intercambiabili, non-significanti e pochissimo performativi, la macchina restituisce non un’immagine della realtà che ci fa sorridere per la sua somiglianza al vero, bensì che mortifica come davanti a uno specchio impietoso. Davvero parliamo così? Davvero le nostre battute sono così poco spiritose? Davvero, soprattutto, il nostro parlato è un continuo occultamento o differimento dei propri punti deboli (vedi Mary che non vuol mai ammettere di aver passato una brutta serata)?
Cos’è, dunque, che conferisce una tendenza al racconto di Mike Leigh, in una tale assenza di evidenza di scrittura? La macchina, per l’appunto. Il cinema in quanto tale. Che diventa sceneggiatura di se stesso, strumento di racconto del tutto autosufficiente. Macchina pochissimo mobile, quasi sempre fissa, ma che rilancia meravigliosamente l’utilizzo espressivo dell’inquadratura. Basti vedere la collocazione spaziale del personaggio di Mary in ogni suo intervento in scena, e soprattutto nell’ultimo capitolo, posizionata sempre a comporre angolazioni rispetto agli altri personaggi che la isolano dal contesto. Certo, nel procedere del racconto l’uso della sceneggiatura è più esplicito e declamato. Il progressivo allontanamento di Mary dal nucleo familiare è palesemente scritto e messo in dialogo. Ma per buona parte del film, la regia è sufficiente a se stessa. Tramite una struttura così minimale, Mike Leigh riesce a far passare miriadi di riflessioni sulla natura umana, sulla tagliente generosità delle persone felici, sull’incapacità di mettersi totalmente in gioco per qualcuno… Mai realismo sociale, né eccessiva evidenza psicologistica. Mike Leigh è il più sottile e spietato illustratore della più intima anima borghese.