Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
The Social Network: l’imprevedibile (ma ormai non più di tanto) narratore classico David Fincher, che fa di un fenomeno di massa una strepitosa tragedia moderna
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
19/11/10 – David Fincher sorprende ancora, anzi non sorprende più. Partito, ai suoi esordi, come autore in prima linea per il rinnovamento del linguaggio narrativo americano mainstream, eccellente provocatore, pur se talvolta fine a se stesso, da qualche anno ha operato una netta virata nella scelta di soggetti e sceneggiature, e ha riapplicato il suo consueto stile visivo, sempre più asciutto ed essenziale, a grandi narrazioni radicate nella cronaca, eppure lontanissime da didascalismi, sociologismi spiccioli o (Dio ce ne scampi) moralismi a buon mercato. The Social Network ricorda molto il Fincher di Zodiac, altra sua opera ammirevole in cui un caso di cronaca nera si trasformava in occasione di riflessione rigorosa su cultura statunitense e ossessione professional-massmediologica che perde di vista il suo stesso oggetto. La struttura narrativa di The Social Network, sorretta da un’attentissima sceneggiatura di Aaron Sorkin, ripercorre grosso modo le stesse coordinate: equidistanza dai personaggi, rifiuto di adesione emotiva verso i personaggi (e, di riflesso, il pubblico è messo in condizione di non poterne amare nessuno), una causa comune che lega gli esseri umani ma, inevitabilmente, spacca il cemento più solido della congenialità con l’emersione di competitività e individualismo, e una sostanziale vittoria/sconfitta per tutti coloro che vi sono coinvolti. Sia Zodiac sia The Social Network sposano la struttura che più classica non si può della “detection” o del “dramma giudiziario”, ma in entrambi, a poco a poco, la verità di tribunale non interessa più a nessuno. Nel procedere del racconto del suo ultimo film, infatti, Fincher imbastisce una vera tragedia moderna, dove il progressivo decadere di reali motivazioni nell’azione dei personaggi va di pari passo allo sgretolamento degli affetti. Mark Zuckerberg, forse, può essere identificato in un arrivista? E’ bramoso di denaro e potere? No, per niente. La sua quasi inconsapevole arrampicata è mossa dall’atto in sé, da una sorta di principio di gratuità dell’atto creativo in quanto tale. A lui interessa solo, forse, il prestigio dell’invenzione, nient’altro. I fratelli Winklevoss, a loro volta, appaiono mossi da ragioni più concrete (il denaro), ma per converso si trovano a scontare una sorta di pregiudizio verso i ricchi. Eduardo Saverin potrebbe uscirne come il più puro, ma lo corrode invidia e rabbia verso il classismo che ha sempre subito. Una guerra, che lentamente perde di vista la stessa posta in gioco, e che si trasforma in un avvincente crescendo di reciproca violenza bianca.
Tenendosi lontano dall’evidenza più pacchiana del racconto morale, Fincher allestisce man mano una prima storicizzazione del secolo attuale, impresa finora mai tentata da nessun altro in cinema. Il dato sociale è narrato sempre “di seconda mano” (con qualche eccesso in più di evidenza solo nel ritratto di Sean Parker), ma sul finale ci consegna un ventenne miliardario solo e ossessivo, impassibile come uno schermo di pc, e apparentemente felice. Il secolo delle solitudini? Può darsi.