Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Benvenuti al Sud di Luca Miniero: raro caso di remake italiano, dove il cinema “riscritto” rasenta, sbagliando, l’idea del format
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
08/10/10 – Giù al Nord fu un simpatico caso, un paio d’anni fa. Film francese di impossibile esportazione, che utilizzava un elementare canovaccio narrativo per giocare sulle differenze linguistiche interne alla Francia, mostrò tutta la sua specificità culturale già nella coraggiosa (ma inefficace) versione doppiata in italiano. Adesso arriva il remake italiano, benedetto dallo stesso Dany Boon, regista e protagonista del prototipo nonché produttore esecutivo della nuova versione. Remake che parte dal presupposto della pura e semplice adattabilità di una struttura narrativa “assoluta”. Esistono differenze linguistiche e culturali anche in Italia, anche più forti rispetto alla Francia. Perciò è sufficiente, pensano gli autori, ricalcare fedelmente la tenue traccia narrativa dell’originale sostituendo i giochini sul “quoi” francese con i “ué ué” e le gestualità partenopee.
Purtroppo, la struttura narrativa di Giù al Nord non si mostra così rocciosa e inattaccabile da trasformarsi in un assoluto culturale, che basta riempire con differenze autoctone in Francia come in Italia, come in Bolivia, come in Nuova Zelanda per ottenere buoni risultati, come se si trattasse di un qualsiasi format televisivo. Anzi, per paradosso il remake, anodino e impersonale quanto basta, rivela anche tutta la fallacia narrativa dell’originale, che fondava per l’appunto tutta la sua fortuna su una ricerca comica tutta interna a un preciso sistema culturale, ma che narrativamente era facile facile, innocua e scolastica. Non giova, a Benvenuti al Sud, purtroppo, il suo piombare nella media commedica nostrana degli anni 2000. La commedia dei conflitti smussati, dello sguardo opaco e non veritiero, dell’Italia letta secondo coordinate superate e ormai non più credibili. La commedia che non si limita nemmeno a risolvere i conflitti in un prevedibile lieto fine, bensì che non contempla proprio il conflitto. Conflitto necessario, questo sì, per ogni vera realizzazione narrativa, in ogni forma, linguaggio e codice di cinema mainstream. La sceneggiatura è pure di ferro, bisogna ammetterlo. Ma di quel ferro tipicamente italiano anni 2000, in cui cioè la realtà non è né ricercata né modellizzata, ma semplicemente rimossa e artefatta. In cosa Giù al Nord non convinceva? Nell’artificio spudorato di certi snodi narrativi, nella non-necessità di alcuni sviluppi psicologici (si può credere all’arzigogolo mentale di un marito che s’inventa un disagio per far felice la moglie?), nella messinscena allestita per l’arrivo della consorte. Mancando una forza comico-linguistica dominante (emblematico, per esempio, è lo scolorimento in un simile contesto di un buon comico come Alessandro Siani), il film di Miniero punta, volutamente o meno, sulla costruzione narrativa tout court, ripercorrendo passivamente il copione di Dany Boon e soci. Poco amabile allora come adesso, e ovunque.
E che dire del goffo sdoganamento del product placement tramite la sua elaborazione in dialogo in fase di sceneggiatura (battute che sembrano prese da uno spot delle Poste Italiane)? Non è ecologicamente sostenibile per un cinema che punta più in alto, per l’appunto, dello spot.