Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Brotherhood-Fratellanza di Nicolo Donato: tra sensazionalismo e, a sorpresa, melodramma vecchio stampo, un film di molte anime per altrettante narrazioni
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
09/07/10 – Ecco un film che, da qualsiasi parte lo si prende, mette in grossa difficoltà chi ne deve scrivere, soprattutto se chi scrive deve concentrarsi su sceneggiatura, racconto e narrazione. Partendo da un soggetto alla ricerca fin troppo scoperta di facili sensazionalismi, il danese di origini italiane Nicolo Donato si muove infatti in diverse direzioni, assommando codici narrativi mai definitivamente afferrati, tra rovinose cadute e altissime note. Per la prima mezz’ora di Brotherhood-Fratellanza, si trema sospettando un orrendo film a tesi: Donato apre infatti con pesanti tratti di socio-psicologia spicciola, con quel breve ritratto, ad esempio, della famiglia di Lars, narrata tramite insostenibili didascalismi. Altrettanto prevedibile (ma tale prevedibilità è già più comprensibile) appare la definizione del contesto neonazista, tra violenze, riti di gruppo, prevaricazione e patetica ideologia. Poi, Donato tenta l’affondo psicologico sui due protagonisti, ma anche in questo il racconto risulta assai sbilenco; se il personaggio di Jimmy è ben tratteggiato nel suo tormento sottoproletario, e la sua esistenza schizoide tra pestaggi e scoperta della propria omosessualità non piega mai verso l’ingiustificata contraddizione narrativa, altrettanto non possiamo dire di Lars, che per tutto il film non delinea una sola scelta adeguatamente motivata. Troppo consapevole della propria omosessualità, troppo intelligente per l’ambiente idiota dei neonazisti, Lars compie un percorso nelle file di quei picchiatori beoti che resta nella più totale nebulosità psicologica. Non è razzista, non è omofobo, mostra di aver già ampiamente metabolizzato la propria omosessualità. Che ci fa in mezzo ai neonazisti? Misteri di una narrazione meccanica che, nei suoi riguardi, s’interessa soltanto a “far procedere” il personaggio perché l’azione possa a sua volta procedere.
Poi, con grande sorpresa, Donato dedica la parte centrale del racconto a un fiammeggiante melodramma, classico e, come tale, spinto all’eccesso. Che, sia detto, ovviamente trae linfa dalla stessa scelta iniziale di spudorato sensazionalismo (in fondo, il soggetto pare tratto da una barzelletta all’ultimo giro di birre: “t’immagini se due neonazisti si scoprissero gay?” e giù risate…). Melodramma nella sua chiave di moderna Danimarca, in cui von Trier e compagni hanno fatto scuola: lunghi silenzi, racconto per immagini spesso con macchina a mano, sapientissima scansione narrativa degli spazi e degli interspazi (i corpi che si sfiorano, timorosi, mani che si respingono in gesti quotidiani ma già carichi di desiderio, la meravigliosa sequenza con macchina ferma davanti alla parete che divide due stanze e i corpi dei due che si scambiano negli spazi di casa per non incrociarsi…). Melodramma classico e moderno con tanto di “cattivo” di turno, invidioso e bilioso, che vuol dividere la coppia e che stavolta s’incarna nel fratello drogato (al posto di Bette Davis). Melodramma spudorato nella massima prova d’amore di pestare a sangue il proprio oggetto d’amore per salvargli la vita. Melodramma che si permette anche il lusso di un timido lieto fine, per nulla fuori luogo, anzi intonatissimo. Buona sceneggiatura, quindi? Diremmo di no, ma il film è bello. Paradossi del cinema.