Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Una notte blu cobalto di Daniele Gangemi: strade narrative poco percorse in Italia per un fragile racconto, che però sa osare (un po’)
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
25/06/10 – L’idea narrativa, è vero, forse è più da cortometraggio, e inevitabilmente l’opera prima di Daniele Gangemi ne risente moltissimo sul piano del racconto, irregolare, zoppicante, piegato a vuoti frequenti e varie debolezze. Ma Una notte blu cobalto, alla fine, merita la visione, e merita un convinto plauso d’incoraggiamento. Innanzitutto per la scelta seria e non corriva dello stesso soggetto: il doloroso processo di separazione da una storia d’amore finita, l’elaborazione dell’abbandono, il limbo psico-emotivo di chi rifiuta la realtà e si chiude in un momentaneo, eterno presente. Poi, per le chiavi narrative scelte, che rifiutano sia l’usuale realismo psicologi(sti)co sia le romanticherie a buon mercato di tanto cinema italiano recente. O meglio, Gangemi ricorre anche ad alcune convenzioni (i tecnicismi finali, con quella pioggerella blu, i Negramaro in colonna sonora), ma tenta d’inglobarle in una struttura narrativa d’altro genere, in cui il racconto si dispiega come “vicenda mentale”. Se la resa formale fosse un po’ più spinta sul coté sperimentale, l’operazione ricorderebbe (con le dovutissime proporzioni) la più struggente elaborazione di un lutto amoroso degli ultimi anni, ovvero Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry.
Ovviamente, i mezzi a disposizione di Gangemi sono più limitati, ma opere come questa fanno pensare che l’eterno vorrei-ma-non-posso del cinema italiano attuale dipenda forse più da grossi limiti industriali che dalla creatività dei nostri nuovi autori. Perché Gangemi, ad esempio, mostra eccome un certo talento, o quantomeno il desiderio di percorrere strade nuove (o da riscoprire) per l’Italia, in una propria dimensione creativa individuale. La scelta ardita del soggetto, è vero, spesso non trova buona rispondenza in adeguate scelte di sceneggiatura: i dialoghi spesso sono elementari, soprattutto nell’incipit suonano un po’ da fotoromanzo, e, se pur stavolta risulti un po’ più giustificata della media dei film italiani che ne fanno uso in quanto collocata in un racconto mentale, anche qui l’immortale voce off della neo-convenzione italiana appare sempre meno necessaria quanto più il racconto procede. Così come la pizzeria “Blu Cobalto” accoglie personaggi volenterosamente surreali (ovvero non si crede per un solo minuto alla loro presunta natura di abitanti di un perturbante luogo dell’anima) e pedantemente stentorei (troppe le lezioni di vita, criptiche ma neanche tanto, di Alessandro Haber).
Tuttavia, la scelta del racconto surreale-metafisico esprime già di per sé un certo coraggio, e, anche se narrato in modo via via più meccanico e ripetitivo, il carosello di solitudini incontrate dal protagonista appare estremamente funzionale sia al senso del film, sia a una macrostruttura narrativa di racconto “a stazioni”, in cui di volta in volta l’abbandono è visualizzato dal protagonista fuori da sé in immagini/non immagini di se stesso. Belle idee, insomma. Sull’economia e fluidità narrativa c’è ancora molto da lavorare, ma Gangemi lavora già piuttosto bene nella ricerca di forme “altre”. Bravo.