Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
Il segreto dei suoi occhi di Juan Josè Campanella: apprezzabile tentativo di Storia tramite il genere, vanificato dall’approssimazione
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
11/06/10 – Non vorremmo fare i “pompieri” a tutti i costi, ma Il segreto dei suoi occhi di Juan Josè Campanella, premio Oscar al miglior film straniero 2010, ci pare “solo” un buon film, di sicuro non un capolavoro. Confermiamo i pregi maggiori che più frequentemente gli sono stati riconosciuti: racconto intenso, appassionante, sapiente costruzione drammaturgica. Altissima professionalità, applicata a una materia narrativa che si contraddistingue per qualche riflessione non banale su memoria ed elaborazione del passato, e incapacità (ontologica?) di chiudere con i rimpianti. Su un piano strettamente narrativo, il film incrocia varie tendenze di genere conducendole a un’ammirevole fusione estetica. Campanella non teme il melodramma, nemmeno quando rasenta pericolosamente la soap-opera, e lo intreccia però a una “costruzione per misteri” che esula dal giallo propriamente detto. “Che caso… non finisce mai” dice Irene a un certo punto. E’ il caso, in realtà, dell’amore inespresso che non riesce mai a chiudersi, e che trascina negli anni pure l’indagine sull’omicidio della ragazza. Intendiamoci, tutto è detto, ripetuto, sottolineato, chiaro che più chiaro non si può, nell’ordine di una narrazione da codice-melodramma dei più classici, secondo i canoni di una totale esteriorità psicologica. Tanto che, se tutto è sempre stato chiaro fin dall’inizio pure ai personaggi, sempre così pienamente autocoscienti, è lecito chiedersi perché trascinino la loro passione inespressa per più di vent’anni.
Ma i dubbi principali non si radicano in tale esteriorità narrativa, che per l’appunto appare una scelta estetico-narrativa forte e consapevole verso il genere del melodramma tradizionale, e che, oltretutto, è piuttosto connotativo della declinazione sudamericana dello stesso melodramma. Quel che convince meno, che emerge poco alla volta e che per tre quarti della visione si spera (inutilmente) resti sottotraccia, è l’inquadramento della cornice storica in una chiave di melodramma personale. Sia chiaro, da un’opera finzionale, che sceglie fortemente la chiave melodrammatica, non si attende e anzi non si auspica nemmeno una vera riflessione storica. A poco a poco, però, Campanella pare mirare a una sorta di racconto allegorico che si rivela grezzo e goffamente costruito. Gli anni immediatamente precedenti al colpo di Stato dei colonnelli è narrato tramite banali beghe personali nell’ordine di una narrazione (questo sì) puramente da soap-opera. Il collega carogna che si allinea alla “nuova Argentina”, la scarcerazione del colpevole come rivalsa personale, la successiva persecuzione di Benjamin a opera dello stesso collega, l’uccisione di Sandoval… Non si può parlare mai di buona scrittura per il cinema quando il melodramma storico, genere popolare e dignitosissimo, riduce a un tale minimo i termini del conflitto drammatico. Non si fa un buon servizio alla storia, e nemmeno al cinema. Si può pure accettare la netta spartizione morale dei personaggi, ma è necessaria una maggiore credibilità psicologica. Si tratta di coerenza interna, anche in ambito spudoratamente melodrammatico. Poiché l’eccessiva approssimazione neutralizza gli strumenti dello stesso genere.