Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“Gli amori folli”: solito racconto perfido in stile Alain Resnais, più libero che mai
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
07/05/10 – “Mamma, quando diventerò un gatto posso mangiare i croccantini?”. Inutile scervellarsi sul senso dell’ultima sequenza de Gli amori folli. Si rischierebbe, forse, di far sbellicare il grande Alain Resnais, che da un bel po’ di anni si diverte un mondo nel fare cinema, nel prendere in giro gli esseri umani e, un pochino, anche nel farsi beffe degli spettatori. Dopo lo sperimentalismo e le ricerche formali da Nouvelle Vague, il Maestro Alain Resnais si è poi caratterizzato negli ultimi vent’anni per piccole/grandi commedie in cui l’esperimento è puramente narrativo, ovvero in cui il racconto è costruito per incastri e precise scansioni, con atteggiamento geometrico e cristallino. Gli elementi narrativi sono ridotti a un’estrema semplicità, i personaggi sono poco più che funzioni ma sempre ottimamente incarnati, e soprattutto uno dei nuovi leit-motiv risiede nell’estrema immobilità dell’essere umano, sempre colto da Resnais nella sua difficoltà ad accettare cambiamenti e sfide, rinchiuso in piccoli universi monolitici in cui, dopo timidi tentativi fallimentari, ritorna sicuro e un po’ spaventato. Nessuno ama se stesso, ma nessuno è nemmeno capace di sfidare se stesso e di cambiare una personale condizione frustrante, e tutti ritornano poi felici sul divano sotto le loro coperte. Sempre più pessimista sul genere umano ma estremamente divertito (e quindi un po’ crudele) nel raccontarlo, anche ne Gli amori folli Resnais ripercorre le stesse strade, con un giro di vite ulteriore, però, sulla crudeltà. I due protagonisti sono di nuovo vittime di una tormentosa solitudine, sono tentati dall’incontro umano ma si temono, si rincorrono, si studiano e, infine, s’incontrano ma la loro prigione mentale li condanna a una congiunta sconfitta.
Resnais stavolta si concede inoltre a un racconto aperto e imprevedibile. O meglio, imbastisce un racconto che a poco a poco si disintegra, perde le sue coordinate, seguendo divagazioni e una generale deriva dei due personaggi. In più, si diverte palesemente con le convenzioni narrative da cinema sentimental-psicologistico per il grande pubblico. Una delle regole più resistenti del dramma euro-americano, è che il personaggio deve cambiare e in qualche modo redimersi. Resnais, invece, piazza un finto finale, e poi chiude con ghigno beffardo su un vero scioglimento privo di qualunque catarsi. Quando la dissacrazione formale di Resnais diventa troppo evidente, appare anche poco felice (il finto finale, per l’appunto, con ralenti emotivo e musica melodrammatica). Però resta ancora godibile il gioco più sottile su codici e linguaggi: si veda, ad esempio, anche la demistificazione del “personaggio secondario”, di solito funzionalizzato all’intreccio, privo di personalità e piegato alle necessità narrative. Qui, invece, i due personaggi di Mathieu Amalric ed Emmanuelle Devos sono palesemente “inutili”; o meglio, sono presentati a loro volta come funzionali ma poi, insieme al racconto, la loro utilità si disintegra sull’onda della totale libertà narrativa. Dell’ultimo Alain Resnais continua a piacerci di più la compiutezza di Parole parole parole, del coraggiosissimo Smoking/No Smoking, a suo modo anche di Cuori. Però va dato atto al maestro francese della sua perseveranza nella ricerca formale, della sua totale padronanza e consapevolezza dei mezzi espressivi, tali da permettergli giochi sopraffini e mai asfittici. E, soprattutto, della capacità di dire qualcosa sulla solitudine dell’essere umano anche attraverso esperimenti di linguaggio. Il gioco narrativo, si sa, tende alla freddezza. Resnais invece conserva vivi e credibili i suoi personaggi anche se ne dissacra la natura, i comportamenti e la loro stessa consistenza di personaggio fittizio.
Vogliamo cercare un senso alla battuta finale del film? Forse è la nostalgia di Marguerite, la protagonista, quando ancora bambina credeva nel cambiamento al punto tale d’immaginarsi che prima o poi si sarebbe trasformata in gatto? Capacità di mutamento intimo che da adulta ormai le è sconosciuta? Vogliamo cercare un senso alle erbe cresciute in mezzo al cemento che ogni tanto intervallano le sequenze narrative? Sono forse le “erbacce” dell’alterità, la follia del desiderio di un vero incontro umano che emerge a frantumare la norma cementificata dei rapporti umani impersonali? Può darsi, chissà… Esercizi d’intelligenza, in fin dei conti, assolutamente inutili. Molto meglio abbandonarsi alla pura visione e al racconto: lo spettatore che s’interroga troppo finisce per comportarsi come Georges, il protagonista, totalmente incapace di abbandonare se stesso.