Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“Sul mare” di Alessandro D’Alatri: bel racconto all’italiana, tenero e arrabbiato, aspro e delicato
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
09/04/10 – Alessandro D’Alatri torna al cinema dopo ben quattro anni, e torna a fare un buon film. Dopo il passo falso di Commediasexi, tentativo malriuscito di riaggiornamento della commedia scollacciata anni ‘70 secondo le linee di una nuova realtà socio-politica, D’Alatri compie una svolta piuttosto netta, e riapproda a un cinema più appartato, sempre un po’ furbetto ma ben radicato in intenzioni di realismo psicologico e sociale. Sul mare è innanzitutto un bel racconto, che prende i passi da un ottimo lavoro di sceneggiatura sul romanzo di Anna Pavignano e che riesce a vivificare e rendere credibili tematiche purtroppo banalizzate da triti dibattiti televisivi e tanto brutto cinema italiano. In mano a un altro autore, il film poteva tramutarsi nell’ennesima “mocciata”; i giovani narrati dal nostro cinema commerciale degli ultimi anni sono diventati scialbi e per nulla radicati nella loro realtà sociale, dando vita a un agghiacciante cinema da “telefoni bianchi del 2000”. D’Alatri nutre invece verso le nostre nuove generazioni un’attenzione non comune, e una vera, palpabile preoccupazione. Dai trentenni in difficoltà matrimoniali di Casomai, al trentenne di La febbre arrabbiato con un paese così mortificante verso ogni tipo di ambizione, fino al Salvatore di Sul mare, l’autore romano reimposta di opera in opera un discorso convinto e convincente sulla relazione tra individuo e società, sugli abissi che si aprono tra le giuste speranze dell’età giovanile e gli avvilenti scontri con la realtà circostante.
In Sul mare il discorso è portato avanti con persuasione ancora maggiore, in quanto è tutto radicato in un conflitto psico-antropologico e in una storia d’amore lontana da qualsiasi approccio banale o edulcorato, ben legata a un contesto sociale e a un dominante sentimento di dolorosa rabbia verso un paese in cui, per eterne ragioni di disagio economico e antropologico, pare impossibile concedere ai ragazzi anche l’esperienza di un sentimento così importante. Certo, narrativamente D’Alatri si fa forte di qualche convenzione; troppe le gite in barca, i chiari di luna riflessi sulla superficie del mare, le spiagge coi fuochi accesi di notte, e pure molte sono le concessioni a una compiaciuta esibizione di tecnica. Così come qualcuno potrà irritarsi per sospette idee retrive che risuonano sottotraccia; la città cattiva vs. i sani principi di una volta di chi cresce in campagna (qui è un’isola, ma i valori messi in gioco sono gli stessi), il cinismo di chi si approfitta, anche inconsapevolmente, dell’ingenuità dei buoni di cuore vs. l’ingenuità di chi sorride alla vita, sempre e comunque, Nord vs. Sud… E magari, qualche indistruttibile femminista potrà arrabbiarsi per il ritratto di quella ragazzetta snob che, con un po’ di faciloneria, conduce alla morte un ragazzo sprovveduto.
Ma a D’Alatri pare interessare davvero tutt’altro, soprattutto il racconto di un disagio sociale che si tramuta (con ottima idea narrativa) in disagio fisico. Nel disturbo psico-somatico di Salvatore non è da leggersi soltanto una banale “paralisi da amore ferito”, bensì l’emersione di un conflitto psichico che si radica nella mancata rispondenza tra desideri e realtà, tra le proprie radici e il desiderio di fuga, tra l’anelito a una vita migliore e l’avvilente fatalismo dominante nel suo contesto sociale. Il finale, va detto, è un po’ affrettato, ma di nuovo si deve riconoscere a D’Alatri il coraggio di andare davvero fino in fondo, senza rifugiarsi in soluzioni facili e consolatorie. Come succedeva nella migliore commedia all’italiana anni ’60 di cui D’Alatri pare uno dei pochi seri continuatori. Il finale ricorda quasi la chiusura terrificante de Il sorpasso. Come Roberto Mariani resta schiacciato dalla superficialità di una società in cui non c’è spazio per persone insicure, così Salvatore rimane vittima di un ragionevolissimo sogno, un sogno per il quale l’Italia di oggi pare non concedere spazi. Gran parte del merito della riuscita (oltre alla superba prova attoriale dell’esordiente Dario Castiglio) va a una sceneggiatura che, alla resa dei conti, non è niente più che corretta, ma che mostra il coraggio, rarissimo nel nostro cinema attuale, di chiamare le cose con il loro nome. Se si parla di morti bianche, la morte dev’essere vera. Sembrerebbe poco, ma in tempi cinematografici in cui si sbraita per due ore e mezzo e poi sul finale si danza tutti a braccetto (ogni riferimento all’ultimo Muccino è puramente casuale), non si può più dare nulla per scontato.