Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“L’uomo nero”: la commedia (drammatica) all’italiana si confronta con le ragioni dell’arte
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
11/12/09 – Nell’attuale panorama italiano il cinema di Sergio Rubini si presenta come uno dei più strettamente e fertilmente narrativi. Non sempre le sue opere giungono a compiutezza, ma, specie negli ultimi dieci anni, tendono costantemente a una solida costruzione drammaturgica, in cui ogni sequenza, ogni singolo brano diegetico corrisponde saldamente a un progetto unitario di racconto. Le storie si radicano con evidente orgoglio nella cultura popolare, ma mai in modo banale né populistico. A Rubini pare interessare lo scavo nelle profonde ragioni della cultura popolare, fatta non solo di riti e cliché da cartolina, ma soprattutto di conflitto psichico primordiale (il tema padre-figlio è ricorrente) e sociale. Per risalire, dall’analisi “piccola” della sua realtà regionale, ad amare riflessioni sulla fisiologia sociale italiana. Qualche anno fa, con L’anima gemella, Rubini si limitò a una rilettura del genere-fiaba in chiave grottesca. Poi, intrecciò la fiaba con ascendenze letterarie classiche per l’ottimo La terra, in cui, malgrado l’impegno evidente, la modernità, inserita per attualizzare un conflitto mitico ed eterno con famiglia e paternità, non riusciva però a tenere in piedi un discorso sull’Italia di oggi, e racconto e allegoria andavano ognuno per conto proprio, con aria posticcia e didascalica. Già in L’amore ritorna, l’opera meno “narrativa” della sua attuale filmografia, Rubini si era posto all’indagine delle ragioni dell’arte tramite un confronto, là buffo e sereno, con la figura paterna.
Adesso, con L’uomo nero l’autore barese pare tirare un po’ le somme di tutte le sue opere precedenti più significative. C’è di nuovo la Puglia, c’è una buona dose di autobiografismo, c’è lo scontro tra l’aspirazione all’arte e i bassi profili dell’intellighenzia provinciale, c’è una dolorosa lacerazione tra padre e figlio, fonte di disagio e, nelle sue punte più amare, di disperazione. Sarebbe sbagliato ridurre tutto a un guizzo isterico di un autore risentito con la critica, che spesso giudica su basi di somma ignoranza. Il discorso di Rubini si allarga, e si concentra semmai sul ritratto di una disperazione provinciale, ambientata negli anni ’60 ma non molto diversa, in verità, dalla disperazione attuale che si prova davanti a un’Italia sempre più immobile e priva di orizzonti stimolanti. Rubini ricorre di nuovo alla struttura di “giallo dell’anima”, in cui il mistero è l’anima di un personaggio, le ragioni dei suoi comportamenti, in questo caso distruttivi per sé e per gli altri, mistero che viene indagato a posteriori col classico doppio piano narrativo. Un presente di ritorno alla terra natale, e un passato evocato nella memoria. Tuttavia, a differenza di film come La terra in cui la struttura del giallo costituiva la vera ragione di tutta la narrazione, in L’uomo nero s’intrecciano varie tonalità di genere che non si disturbano più di tanto. C’è posto per la commedia sociale, per il dramma, a tratti per la farsa, e pure per (poco felici) parentesi fantasmagoriche. Cinema estremamente generoso, quello di Rubini, con qualche rischio di collasso stilistico e narrativo per la troppa carne al fuoco. Si notano, infatti, alcune incertezze e rigidità narrative; alcune sequenze tradiscono un gusto troppo teatrale pure nel dialogato, soprattutto nei ritratti del professore d’arte, dell’avvocato e del direttore del museo. Figure “fuori sincrono” rispetto agli altri ritratti umani, che al contrario spiccano per credibilità. Ma l’autore non perde mai di vista il proprio nucleo narrativo principale, a cui è evidentemente affezionato: l’ossessione del protagonista per il riconoscimento ufficiale della sua arte, che lo spinge prima verso l’umiliazione, poi verso un riscatto personale che sceglie di godersi in privato per il resto della sua vita.
La buona riuscita narrativa de L’uomo nero risiede nella sua capacità di farsi allegoria senza alcuna ostentazione. Allegoria dell’immobilismo provinciale italiano, dell’incapacità di produrre arte per il solo piacere di farlo, dell’incapacità tutta italiana di sfuggire al bisogno quasi fisiologico della compiacenza, del potere della cultura, che può schiacciare la dignità di un essere umano quando e come vuole. Se l’ufficialità non ti riconosce bravo, tu non esisti: Rubini punta il dito su questo inganno, e gli conferisce, in controluce, lo status di principio culturale nazionale. Non a caso, alle fantasie di Gabriele da piccolo (fantasie pure e libere, in grado di rielaborare la realtà), il padre risponde con un’arte per lo più copiativa, perché in cerca dell’apprezzamento degli altri. Tutto ciò, che è materia densa e corposa, è raccontato però tramite gli strumenti di un bel “drammacommedia” all’italiana, classico e popolare, che porta fieramente su di sé i segni di una tradizione narrativa consolidata, ma sempre meno ripercorsa. Con la giusta ispirazione, la commedia all’italiana, dai risvolti amari, crudeli se non tragici, può ancora dare molto al nostro cinema. Specie quando è sostenuta, come in questo caso, da un raffinato controcampo letterario. L’eroe patetico, vittima dell’ipocrisia borghese, è un topos della letteratura russa classica. Grandi narrazioni a cui Rubini ritorna continuamente, come testimoniato anche dai suoi Karamazov pugliesi in La terra.
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