Parola al Cinema – Uno sguardo sulla sceneggiatura
“San Valentino di sangue”: narrazioni 3D
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
16/05/09 – Premetto di non aver visto l`originale di cui San Valentino di sangue è il remake, nè di aver visto il film attuale nella sua destinazione 3D, poichè Firenze non s`è ancora adeguata alla rinata tendenza cinematografica e le sue sale sono al momento sprovviste della necessaria attrezzatura per proiezioni di questo tipo. Tuttavia, la proiezione nuda e pura del film è più adatta a uno sguardo sulla sua narrazione, sulle modalità tramite le quali il racconto viene piegato alla fruizione tridimensionale, e sulla sua sostanziale funzionalità a tale scopo. Con gli occhialetti e gli spaventi fuori dallo schermo, probabilmente sarebbe stato più difficile farsi un`idea della natura del racconto, della sua struttura, dei suoi mezzi (mantenere i nervi saldi e l`attenzione critica alta in mezzo a picconate tridimensionali non dev`essere cosa facile…).
Di solito il racconto in 3D si muove su alcuni generi fissi: l`avventura, il fantasy, adesso l`horror, ovvero tutti i generi che comportano suspense, spaventi, vertigine, concitazione narrativa, e che può dare quindi sale e risalto a effetti speciali vissuti in prima persona. Ciononostante, la narrazione in 3D si configura anche come un genere trasversale, che segue proprie regole diegetiche e rispetta una sua uniformità di fruizione. San Valentino di sangue ne è un buon esempio. Primo dato: un`estrema semplicità narrativa. La sceneggiatura è ridotta all`osso, tanto che il film, se non fosse destinato al 3D, apparirebbe confusionario, scritto malissimo, pieno di buchi logici e assolutamente ridicolo. Non è chiarissimo il movente, la rabbia del presunto killer immortale è rapidamente e rozzamente spiegata, i personaggi appaiono, scompaiono e riappaiono (al momento giusto per essere macellati) senza alcuna necessità narrativa. Ma tutto questo è secondario, poichè la narrazione si pone come primo obiettivo lo spavento a oltranza per bombardare lo spettatore al di là dei suoi occhialetti, e a tale scopo ricorre a uno sviluppo per accumulo. Da almeno metà in poi, infatti, il film procede per successive lunghe sequenze di omicidio, tra le quali se ne distinguono un paio per meriti di regia (soprattutto la sequenza nel supermercato), e che mettono da parte motivazioni psicologiche dell`assassino, indagine sulla sua identità , tutto quel che si è scoperto fino a quel momento. Secondo dato: insistenza sulle scene degli omicidi. Il killer è sorprendentemente lento, infligge le sue picconate una dopo l`altra con precisione e con pause “meditative”, fuori da ogni convenzione dello slasher americano, che di solito è rapido e, per l`appunto, tagliente. In verità la metodica assassina di San Valentino di sangue è di nuovo funzionale al 3D, che deve far soffrire lo spettatore nella sua simulata realtà quanto più a lungo e sadicamente possibile. Infine, terzo dato: iperbole iperrealistica, negli omicidi e non solo. Ma la violenza, stavolta, non mira all`efferatezza insostenibile del nuovo horror americano (la saga di Saw, Hostel…), bensì all`iperbole grottesca del cartoon. Ancora, il 3D è stimolo in questa direzione. Come spiegare altrimenti la pallottola finale sparata verso il pubblico, o il pugno scagliato contro lo specchio in una rissa da bar (sequenze accolte in sala, a dire il vero, con sonore risate)?
Il 3D, insomma, spinge la narrazione verso la serie B, verso gli effettacci, verso il cinema da drive-in. Lo spunto, stavolta, è stato trovato in un vecchio slasher degli anni Ottanta, ma la struttura diegetica di San Valentino di sangueevoca semmai, e curiosamente, l`horroraccio italiano. Non è un caso, forse, che il film originale del 1981 sia adorato da Quentin Tarantino, noto cultore del trash italiano di genere. Accumulo narrativo, insistenza morbosa sugli omicidi, iperbole grottesca e autoironica. Ti metti gli occhialetti, e vedi Lucio Fulci.