È bello poter pensare che il cinema europeo – al di là dei nomi noti e a volte sin troppo celebrati – sia ancora in grado di regalare piccole meravigliose sorprese. È il caso di Oh Boy, un caffè a Berlino che, finalmente, riporta al centro della scena internazionale il cinema tedesco, dopo tante troppe produzioni fatte apposta per varcare i confini nazionali e per piacere a un pubblico globale (Good Bye, Lenin!, La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler, Le vite degli altri, ecc.).
L’esordio nel cinema di finzione del regista Jan Ole Gerster è infatti un film piccolo, molto a basso budget, girato in bianco e nero e, apparentemente dalle ambizioni modeste; ambizioni che, al contrario, man mano che si procede nella visione emergono in tutta la loro cristallina concretezza: parlare non solo di certa gioventù “bambocciona” odierna costretta a fare i conti con la propria incapacità di vivere, ma anche incrinare l’ideologia della teutonica e luterana ambizione al successo senza guardare in faccia nessuno e dimenticando troppo spesso il passato. Il tutto con una messa in scena appunto povera, disadorna, quasi da produzione amatoriale, ma con una scrittura eccellente, apparentemente sfilacciata e invece perfettamente coerente nel suo détour cittadino, con personaggi che perlopiù appaiono in una singola sequenza, ma che ogni volta lasciano il segno rimettendo sempre in questione il percorso del protagonista.
Al centro della vicenda c’è in effetti il classico “soggetto debole” di certa narrativa moderna e contemporanea: Niko è un giovane nullafacente, che ha lasciato gli studi e campa sulle spalle del facoltoso padre; ma in questa sua caratterizzazione non vi è nessun giudizio negativo da parte del regista. Niko è così e basta. Quel che importa piuttosto è vedere e verificare le prove, anche molto umilianti, che si trova costretto ad affrontare nel giro di poche ore, sostanzialmente nel corso di una giornata, legate tra loro dalla sempre negata possibilità di potersi bere un caffè: dal colloquio con un beffardo psicologo intenzionato a togliergli la patente, al casuale incontro con una vecchia compagna di scuola all’epoca molto sovrappeso, fino alla conoscenza di un curioso e apparentemente folcloristico ubriaco.
Il percorso di Niko ricorda a tratti quello di Griffin Dunne in Fuori orario, ma privo di quella sorta di circolarità fatale che caratterizzava il film di Scorsese. Oh Boy, un caffè a Berlino procede piuttosto per strappi, per tappe progressive, per stazioni di una moderna via crucis in cui si fa via via chiaro il miserevole destino esistenziale del protagonista. Pur costruito spesso con sequenze al limite del surreale e del grottesco, come ad esempio quella della conoscenza con l’attore che – non a caso – interpreta il banalissimo e ormai codificato ruolo dell’ufficiale delle SS innamorato (un must mitteleuropeo dal Black Book di Paul Verhoeven in poi), infatti il film riesce a dipanare un paesaggio morale di abiezione assoluta, di invidie e ipocrisie, di violenze e soprusi, lasciando davvero poche speranze nel futuro di un giovane, la cui unica colpa è stata quella di essersi lasciato un po’ andare e di essersi comportato in modo vagamente lassista. Un pessimismo che guarda direttamente agli orizzonti incerti dell’Europa contemporanea e che lascia con un profondo senso di amarezza.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi