La fatina dei denti è un personaggio importante nell’infanzia di ogni bambino, accompagna infatti un momento un po’ traumatico legato alla crescita, quale è la perdita dei denti da latte, compensandolo con piccoli doni o graditi omaggi pecuniari. Ma se la generosa creatura ha le fattezze di un topo di cantina dalle zampette uncinate e preferisce rapire bambini tutt’interi per poi sgraffignargli la perlacea dentatura, allora la questione si fa spinosa e crescere diventa assai più duro. È quello che accade in Non avere paura del buio, horror gotico dai toni fiabeschi diretto dall’esordiente Troy Nixey e prodotto da un maestro del genere, quel Guillermo del Toro che con Il labirinto del fauno era riuscito a terrorizzare adulti e bambini raccontando le violenze del franchismo come una terribile fiaba nera.
Ha senz’altro meno ambizioni questo Non avere paura del buio che si limita a dare alle paure infantili la forma delle su descritte creaturine e a costruire una tensione ben ritmata, eppure facile a sciogliersi come neve al sole una volta esauritosi il mcguffin. Al centro delle vicende c’è qui l’infanzia turbolenta della piccola Sally (Bailee Madison), scaricata improvvisamente dalla madre e affidata alle cure paterne di Alex (Guy Pearce), spavaldo arredatore d’interni fidanzato con la collega Kim (Katie Holmes). La piccola viene accolta dalla coppia in un inquietante maniero sottoposto alle loro cure restaurative. Ma nella casa abitava un celebre illustratore misteriosamente deceduto e starà proprio a Sally scoprire come. Per la piccola i sintomi della sindrome da abbandono si manifestano tutti e a stretto raggio: paura del buio, bambole decapitate, demonizzazione dell’aspirante matrigna e visioni di creature dagli occhi di brace nella buca per la cenere sita in cantina. Gradualmente, sarà proprio la bistrattata Kim ad avvicinarsi alla bambina per condividere con lei ansie, paure e terribili scoperte. Tratto da un omonimo telefilm degli anni ’70, Non avere paura del buio è ricco di ammalianti suggestioni visive (si veda il murales in stile pop-surrealism) e riesce a tenere ben desta l’attenzione dello spettatore; si apprezzano inoltre le numerose metafore legate alle paure connesse alla crescita, dalle fatine al terrore dell’oscurità, dal più banale complesso di Elettra all’originale metafora dell’infanzia incarnata dalle carpe giapponesi. Peccato dunque per la scarsa cura della CGI: le creature dentute provocano infatti qualche involontaria risata e, dato che non si tratta dei Gremlins, bensì di un horror fiabesco dalle esplicite velleità autoriali, evidentemente non tutto è stato ben calibrato.
Vai alla SCHEDA FILM