Dany Boon, attore regista e sceneggiatore francese, era già una celebrità in patria prima del 2008. Poi venne Giù al nord e il successo in tutta Europa lo fece diventare anche una promessa per le società di produzione: la promessa d’una garanzia, il miraggio della formula segreta per il successo al botteghino. Esattamente tre anni più tardi, nel febbraio del 2011, sugli schermi francesi e su quelli belgi esce Niente da dichiarare, seguito indiretto, tentativo di replica dell’exploit del precedente. Anche qui una coppia di protagonisti coinvolti in uno scontro di culture (un doganiere francese e uno belga uniti per dovere di servizio all’alba della nuova Europa senza frontiere), di nuovo il gioco su accenti e dialetti (anche se questa volta decisamente in tono minore, per quello che è possibile capire dalla versione doppiata in italiano), film a misura d’uomo con inevitabile lieto fine. La critica francese lo ha massacrato ma il pubblico, in patria e oltreconfine, lo ha invece fatto salire in cima alle classifiche dei blockbuster francofoni di tutti i tempi.
Dopo quasi un anno il film esce anche in Italia, doppiato e presentato come una filiazione diretta non solo del successo francese ma anche di quello italiano (Benvenuti al Sud, 2010). Dany Boon è un attore comico di grande flessibilità e di una certa intelligenza: pur dotato di un certo senso da rabdomante per la gag – ché di gusto forse non si può parlare – gli riesce difficile tuttavia separarsi da sé, uscire dai panni del performer e immaginare un racconto, per poi anche costruirlo con lo sguardo, dietro la macchina da presa. Se in Giù al nord la sceneggiatura e la regia venivano divorate e sostituite dalla situazione comica, dalla smorfia, dallo sberleffo, in Niente da dichiarare il ritmo scende, le inquadrature e le scene sembrano provare ad aprirsi, e la scrittura insieme alla regia a tentare una riscossa. Purtroppo però lo spazio lasciato vuoto dalla vitalità comica non viene affatto riempito. Il racconto procede a singhiozzo tentando a più riprese una serie di false partenze, senza mai riuscire ad alimentare con un minimo di coerenza anche solo uno dei fili narrativi iniziati: all’incipit da commedia agrodolce segue l’illusione di una farsa, poi arriva la commedia romantica, poi un accenno di comica rocambolosca, e di nuovo, daccapo, come all’inizio. Pezzi disorganici, singhiozzi inconsulti che non trovano mai, neppure al loro interno, un equilibrio definitivo. Il dolly che dà l’avvio al film è il segno premonitore di una regia inutilmente piena di movimenti di macchina, d’inquadrature ardite, di variazioni, alla costante fastidiosa ricerca dell’effetto, della sottolineatura, della brillantezza. Né divertente, né rifinito, il film di Boon manifesta fin troppo evidentemente il proprio spirito sbilenco: il tentativo di un saltimbanco di diventare un efficiente impiegato.
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