Nagisa Oshima tra Oriente e Occidente

Scompare uno dei rappresentanti del cinema giapponese più conosciuto in Occidente. Suo l'epocale Ecco l'impero dei sensi. Ma le "luci rosse", nel suo caso, furono un equivoco.

Nagisa Oshima è stato un’avanguardia. Non soltanto nel senso di sperimentatore e precursore di novità espressive, ma anche riguardo ad audacia tematica (il suo pregio più riconosciuto) e come rappresentante di un cinema orientale ancora in buona parte sconosciuto al resto del mondo. Akira Kurosawa, Kon Ichikawa e Yasujiro Ozu erano nomi già noti e apprezzati fuori dai loro confini nazionali, e nel caso di Kurosawa era riscontrabile anche una sua certa popolarità presso il pubblico. Ma con Oshima, e soprattutto con l’esplosione di Ecco l’impero dei sensi (1976) a tutte le latitudini del pianeta, il cinema giapponese acquisì una visibilità (e anche un’equivocata “commerciabilità”) fino a quel momento inconcepibile. Ovviamente il sesso dal vero, messo in scena ed esibito con sana e totale spontaneità, appariva di per sé un’inaudita sfida e conquista, e il film di Oshima, rimaneggiato in infinite versioni per via delle singole censure nazionali, riempì sale a luci rosse per anni, dato in pasto a un pubblico a cui poco interessava se poi si trattasse di uno degli studi più intensi e appassionati su Eros e Thanatos mai visto al cinema fino a quel momento. Suo malgrado, Oshima divenne sì un apripista, un divulgatore di cinema e cultura giapponese in Occidente, ma contribuì anche a una diffusa ed errata lettura di quel cinema e di quella cultura. E’ paradossale il fatto che le stesse distorte ragioni per cui in Occidente “Oshima voleva dire Giappone”, in patria fossero per lui causa di ostracismo. Inaccettabile risultava infatti per le platee nipponiche la sua franchezza narrativa, sia sul versante politico (certi suoi film degli esordi come Notte e nebbia del Giappone, 1960) sia sociologico (La cerimonia, 1971, meraviglioso atto d’accusa contro la chiusura, tradizionalismo e asfissia sociale dell’istituto familiare giapponese), sia, più tardi, erotico-istintivo (Ecco l’impero dei sensi e L’impero della passione, 1978, opera premiata per la regia a Cannes che, assai meno visivamente provocatoria, indagava comunque un malsano rapporto di coppia).

Oltre ai ripetuti attacchi alle calcificazioni antropologiche nazionali, all’ipocrita repressione degli istinti e alle conseguenti perversioni, quel che in patria si perdonava meno a Oshima era l’uso aggressivo del grottesco, sottile e significativo in L’impiccagione (1968) e La cerimonia, sposato incondizionatamente in uno dei suoi film meno fortunati, Max amore mio (1986), girato in Francia durante il suo “esilio” europeo su ispirazioni bunueliane, non a caso sceneggiato da Jean-Claude Carrière. Forse un solo altro dei suoi film contende a Ecco l’impero dei sensi il primato di popolarità mondiale: quel Furyo (1983) animato da un cast d’attori originale e interessante, le due rockstar David Bowie e Ryuichi Sakamoto, il buon britannico Tom Conti e l’ancora sconosciuto (da noi) Takeshi Kitano. Sulle note di un famosissimo commento musicale a opera dello stesso Sakamoto, in questa occasione Oshima appiattisce un po’ la potenza visiva del suo cinema su un gusto anonimo e internazionale, ma la forza provocatoria del suo linguaggio a diretto contatto con l’istinto rivive pienamente nello scontro tra due culture e civiltà, in cui, come sempre, percorrono sotterranee e violente tensioni omosessuali. Un discorso mai concluso, che trova un’ulteriore analisi nella sua splendida opera di congedo, Tabù – Gohatto (1999), di nuovo con Kitano protagonista. E il cinema erotico, dunque? Sarebbe curioso indagare, tra i tanti spettatori degli anni ’70 che videro Ecco l’impero dei sensi, quanti fossero consapevoli di essersi casualmente incontrati con un autore-caposaldo della sua epoca.

MASSIMILIANO SCHIAVONI