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La domanda è legittima: perché fare un remake di Uomini che odiano le donne a così breve distanza dall’originale svedese? Forse perché in America il film non ha avuto la distribuzione capillare dell’Europa. Ma la risposta in realtà sta nel film omonimo di David Fincher che prende la trama della pellicola di Oplev e, attraverso il lavoro di regia e messinscena, ne fa un film totalmente suo. La trama è quella del romanzo di Stieg Larsson: Mikael è un giornalista d’inchiesta condannato per diffamazione che decide di farsi da parte. Gli viene incontro un ricco patriarca che lo assume per scoprire che fine ha fatto la nipote scomparsa 40 anni prima. Ma chi è la misteriosa hacker punk che ha indagato su di lui e che pare conoscere ogni segreto? Steven Zaillian adatta il best-seller scandinavo facendone un calibratissimo thriller dai tempi curiosamente dilatati che ricorda, per andamento, più Zodiac che un qualunque giallo d’alta classifica.
Infatti, come nel suo film del 2007, anche in Millennium – Uomini che odiano le donne Fincher lavora sulla meticolosa indagine del passato, individuando man mano le ossessioni dei delitti irrisolti per svelare i nazismi sepolti nelle famiglie, nella società, nella psiche prima ancora che nella politica. E anziché seguire i tempi televisivi dell’indagine – di cui risentiva l’originale svedese – il regista americano preferisce concentrarsi sul metodo: come il protagonista, come lo stesso Larsson – che prima di diventare scrittore famoso era giornalista scomodo – Fincher costruisce il suo film con l’attenzione maniacale ai fatti, agli elementi, alle mosse dei personaggi e realizza un film di grandissimo spessore visivo fatto di una suspense continua, di atmosfere dense e vere e proprie idee grafiche (incredibili i titoli di testa sulle note di Immigrant Song del Blur Studio). È la regia quindi che fa la differenza col film originale, è la sapienza abbacinante con cui Fincher gestisce i movimenti di macchina, sono i colori (la fotografia è di Jeff Cronenweth, già al lavoro per Fincher in Fight Club e The Social Network), è il montaggio di Kirk Baxter e Angus Wall e l’ancora una volta favolosa musica di Trent Reznor e Atticus Ross. E forse in fin dei conti è qualche soluzione di sceneggiatura, soprattutto nel personaggio dell’hacker Lizbeth, che viene reso più fragile dalla scelta di Rooney Mara come interprete, e un rapporto meno forte e dunque meno riuscito con il giornalista Mikael, a farne un film minore nella filmografia di Fincher. Minore, forse, ma anche grazie a un Daniel Craig fuori dagli schemi bondiani, pur sempre impeccabile.
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