Nonostante Sergio Rubini abbia dato finora buone prove da regista, mettendo talvolta in campo anche un particolarissimo humour nero e surreale (L’Anima Gemella), con questo suo ultimo Mi rifaccio vivo la filmografia dell’autore sembra fare un altro passo indietro dopo il già non troppo brillante L’Uomo Nero. Anche in questo caso ci troviamo in presenza di un soggetto venato di elementi di magia, anzi, in questo caso addirittura ultraterreni: il protagonista della storia è infatti un piccolo imprenditore, Biagio Bianchetti (Lillo), che decide di farla finta dopo aver lottato una vita intera contro un acerrimo rivale in tutto, dall’amore al lavoro, Ottone Di Valerio (Neri Marcorè). Alle soglie di un paradiso il cui accesso è regolato, tra gli altri, da Karl Marx (!), Biagio scopre però di avere la possibilità di tornare per una settimana sulla Terra, in modo da dimostrare di essere destinato alle massime sfere celesti e non al supplizio infernale. Peccato che il suo unico interesse sia vendicarsi dello storico nemico, tanto da decidere di spendere il suo “bonus” nel regno dei vivi nei panni di un guru dell’economia sostenibile (Emilio Solfrizzi) con cui Ottone è in affari e che potrebbe fare in modo di rovinare a quest’ultimo reputazione, matrimonio e carriera. Ma la vicinanza con l’odiato antagonista, mostrerà a Biagio come non sia tutto oro quello che luccica, e come dietro un uomo di grande successo possa celarsi un’esistenza fondamentalmente triste e complessata.
Sarà per l’ambientazione romana, lontana dalle atmosfere pugliesi, bruciate e dai colori caldissimi che tanto hanno significato nelle opere precedenti di Rubini, ma questa nuova commedia appare appiattita sugli standard non troppo alti stabiliti da cinepanettoni ed emuli, con gag di una semplicità sconcertante o basate sulle solite situazioni equivoche. Anche l’idea di partenza, quella della reincarnazione, ricalca schemi ormai vecchi di decenni, già ampiamente sfruttati non solo dai film americani, ma anche da quel cinema italiano di seconda categoria degli anni ’90 che guardava agli USA per sfornare ampi assortimenti di sottoprodotti comici dal sapore televisivo. Molto fuori tempo rispetto all’attualità socioeconomica, poi, la trama giustificazionista verso la classe imprenditoriale e i suoi presunti, quanto ridicoli, drammi esistenziali. Unica nota positiva, l’ottima direzione degli attori: qualità che il regista riesce a confermare in ogni suo lavoro e che si declina anche stavolta nelle buone performance del trio comico Lillo-Marcorè-Solfrizzi, più Margherita Buy nel ruolo della moglie repressa di Ottone. Il buon funzionamento del cast corale emerge perciò come la sola sfumatura in grado di riabilitare un po’ questa commediola, che per il resto appare palesemente come minore e poco memorabile nel percorso del Rubini regista.
LAURA CROCE