Quante speranze di riuscita poteva avere una commedia che ha per protagonista una comitiva di anziani e che sposa i tratti melodrammatici del cinema bollywoodiano? Nonostante si avverta in modo costante il sentore dello stereotipo folkloristico e di una sdolcinatezza mielosa da film-tv, alla fine Marigold Hotel riesce tuttavia a evitare il peggio e a risultare un’opera tutto sommato gradevole e a tratti divertente. Il merito? E’ tutto di un cast d’eccezione e di personaggi che non appaiono come semplici figurine di un fotoromanzo per la terza età, ma un buon compendio delle contraddizioni del nostro presente in cui da una parte si allunga la vita media delle persone, e dall’altra si costruisce intorno a loro un mondo sempre più allergico alla senilità. I protagonisti sono sette inglesi tra i 60 e i 70 anni, che per vari motivi decidono di evitare di venire parcheggiati in qualche angolo solitario della società occidentale e di tentare un nuovo inizio nell’esotica India. La loro destinazione è il regale Marigold Hotel, una residenza di lusso per anziani signori britannici che desiderano ritirarsi tra i profumi e i colori del Paese asiatico. Peccato che la brochure fosse stata un po’ imbellita al computer, e che l’albergo sia in realtà un palazzo fatiscente gestito da un giovane volenteroso ma un po’ scapestrato, che vorrebbe farlo rifiorire per dimostrare a sua madre il proprio valore e guadagnarsi così la sua approvazione per il matrimonio con una bella ragazza moderna ed emancipata, ma proveniente da una casta inferiore.
Ovviamente questo lato della trama è il più banale e scontato, più complete e interessanti sono invece le storie dei diversi personaggi, che vanno dalla casalinga in cerca di riscatto, alla coppia frustrata che rischia tutto pur di sostenere il progetto di impresa della figlia, all’immancabile vecchietto arzillo in disperata ricerca di qualcuno con cui soddisfare la propria passione snobbata dalle donne inglesi più giovani. Anche qui ricorrono facili luoghi comuni e passaggi stilistici quasi indegni per un regista come John Madden, che ha al proprio attivo perfino un premio Oscar, Shakespeare in Love. Anche questi momenti di incertezza sono però superati dal piacere di vedere sullo schermo tutti insieme attori come Bill Nighy, Tom Wilkinson, Maggie Smith e Judi Dench, che non solo riescono a valorizzare a vicenda la propria abilità di interpreti maturi, ma lo fanno anche con un inimitabile tocco british che pervade tutto il film. Forse un po’ scontato, forse un po’ naif e forse un po’ gerontofilo, ma anche per questo insolito e piacevolmente interessante.
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