16/10/09 – In un momento come questo in cui le donne in Italia devono sopportare insulti, arroganze e battutine salaci provenire dal Presidente del Consiglio in persona, un film come Lo spazio bianco è un contributo prezioso, capace di mostrare delle donne forti, indipendenti e resistenti allinterno di una società volgarmente maschilista. Francesca Comencini poi è senzaltro una regista dotata di uno sguardo lucido e personale, ma anche di passione civile, qualità oggi sempre più rara. E se stavolta la regista romana ha deciso di affrontare apertamente un tema privato come quello della maternità, ciò non toglie che ne “Lo spazio bianco” vi sia una sorta di incitamento a tutte le donne (e gli uomini) di buona volontà perché si rimbocchino le maniche per affrontare la dura realtà che sta vivendo il Paese.
In tal senso è azzeccata la scelta di ambientare il film a Napoli, città-simbolo del nostro declino, dedalo camaleontico di miserie e nobiltà (si vedano i continui spostamenti di sede della scolaresca, dalle stelle alle stalle e viceversa), ma città tuttora viva e energica. Bello il personaggio della giudice che lotta per ridare senso alla legge; bello il personaggio della popolana la cui ingenuità fa da contraltare a Margherita Buy; meno convincente lallievo prediletto della Buy, un ex operaio vittima di un incidente sul lavoro, il cui dramma viene presentato con didascalismo. In effetti se limpegno civile è sempre lodevole, non è detto che, automaticamente, debba farsi cinema. A tratti ci si ravvede di questo difetto ne “Lo spazio bianco”, soprattutto nella caratterizzazione degli scolari adulti di Margherita Buy (cè anche il solito immigrato-laureato, una specie di figura mitologica del nostro immaginario); ne consegue talvolta limpressione di assistere a un ritratto-presepe, in cui alcune figure risultano decisamente bidimensionali, come se la Comencini avesse spinto troppo sulla presunta bontà innata del genere umano. Se si aggiunge una certa stanchezza di alcune soluzioni visive, che vorrebbero essere visionarie (la Buy che passeggia per strada con il camice verde, la separazione a Piazza del Plebiscito tra la Buy e il suo uomo troncati da una comitiva di bambini) e che invece paiono banali, allora ci si rende conto di come “Lo spazio bianco” soffra alla fine di alcuni difetti che diremmo quasi connaturati al nostro cinema più recente (la scarsa capacità di raccontare delle persone reali, come un immigrato ad esempio, e allopposto la fatica a lasciarsi andare a delle visioni).
Eppure resta un lascito che non si deve dimenticare: quello spazio bianco, quel non-luogo e quel non-tempo che separano una madre e una figlia, nata prematura, e da cui emerge unintensità di rapporto che si gioca sulla quasi impossibilità del contatto fisico e che dunque si dà come desiderio di vivere e di resistere nonostante tutto.
(ALESSANDRO ANIBALLI)