Robert Guediguian, quasisessantenne regista francese nato in un quartiere popolare di Marsiglia, con Le nevi del Kilimangiaro – mostrato nel corso dell’ultima edizione del Festival di Cannes, fuori concorso nella sezione Un certain regard e liberamente ispirato a una poesia di Victor Hugo – festeggia i trent’anni di carriera. Trent’anni di cinema senza grandi scossoni, passati a collezionare, un titolo dopo l’altro, prove convincenti da solido narratore. E così sembra fare anche stavolta che si parla di guerra tra poveri, crisi economica, dei delitti e delle pene: Guediguian cerca la via a un racconto piano, dotato di grazia, condito di ironia e della giusta dose di drammaticità, e lo fa a costo di triturare i luoghi, i temi e le storie che in teoria gli dovrebbero stare particolarmente a cuore. Le nevi del Kilimangiaro sono quelle che i due protagonisti – operaio lui, pulitrice a ore lei – sperano di poter vedere nel loro primo vero viaggio (ma anche il titolo di una canzone che fa da leitmotiv al film), giunto come dono inatteso da parte dei figli affettuosi quando la perdita del lavoro costringe il padre a una forzata inattività. Qualcuno però sciuperà i piani della coppia post-proletaria, costringendola a un ripensamento e alla finale salvezza dalle fauci della logica capitalistica e borghese.
Se non fosse per la furba malafede del regista – responsabile anche della sceneggiatura –, sempre troppo ansioso di tirar su teoremi di cartapesta, sceneggiando un meraviglioso mondo di Amelie in salsa pseudomarxista, Le nevi del Kilimangiaro sarebbe potuto essere un film intelligente, un film giusto, soprattutto per le possibilità offerte da una storia lucidamente costruita come paradigma della contemporaneità. Invece Guadiguian parte fin dall’inizio lancia in resta, convinto di dover portare a compimento un suo piccolo teorema dell’ovvio, che suona più o meno così: anche se ti sembra di star male, ricordati che intorno a te ci sarà sempre qualcuno che sta peggio, al quale offrire il tuo aiuto, decidendo così della salvezza di entrambi. Le brillanti interpretazioni di un cast perfetto, il gusto non raffinato ma consapevole nel riprendere Marsiglia, il ritmo aggraziato del racconto non bastano a salvare un fastidioso simulacro di film popolare, un irritante apologhetto populista che invece di registrare o analizzare le disfunzionalità della società contemporanea, ne ricostruisce, con riga e compasso, una fasulla, in cui bene e male esistono solo separati l’uno dall’altro, e giustizia e verità coincidono con la felicità.
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