Dalla nostra inviata GIOVANNA BARRECA
“Una mattina mi sono svegliato e ho bruciato il Tricolor. Umberto Bossi, portali via che ci viene da vomitar”. I leghisti in manifestazione storpiano con parole insultanti la canzone partigiana Bella ciao e in italiana.doc al TFF, la giovane regista Laura Lazzarin di Land of Joy, usa questo canto e riprende per un giorno intero una manifestazione del partito di destra italiano, come punto di partenza per un racconto attento, accurato e stimolante di un microcosmo italiano alieno come la provincia di Treviso. Un’analisi non sociologica ma soprattutto antropologica di una regione che, a causa dei cambimenti violenti e veloci vissuti nell’arco di pochi decenni, ha visto la nascita della Lega come, purtroppo, conseguenza diretta di tale trasformazione. Un territorio che per anni ha prodotto solo “patate e fagioli” – come afferma uno degli intervistati -tanto da spingere la maggior parte degli uomini a migrare verso Belgio e Francia: “qui lavoravano solo pochi boscaioli, gli altri partivano lasciando in paese solo da donne, vecchi e bambini”. Poi l’industrializzazione, il benessere per tutti fino ad oggi, quando un operaio al quale hanno ridotto l’orario di lavoro, passa il tempo libero a pescare sul greto di un ruscello accanto ad un agglomerato di case popolari, abitate da immigrati.
Lazzarin incontra soprattutto uomini e donne adulti, imprenditori, operai, padroncini che nel nord-est vivono e che per molti è stato territorio di partenza di un’espansione verso i mercati internazionali, basti pensare al signor che vende trappole per topi e che si vanta di aver aiutato Rudolf Giuliani, ex Sindaco di New York, a liberarsi dalla terribile invasione dei roditori con scatole nere chiuse a chiave dove il topo entra, mangia ed esce per andare a morire altrove. Metafora di tante cose che accadono in Veneto? Certo è che Laura Lazzarin riesce, anche se ha girato in pellicola il suo documentario – lavoro di diploma alla German Film and Television Academy – a restituirci molta improvvisazione, molte immagini che sembrano essere state rubate, riuscendo a cogliere una spontaneità rara in campi medi dalle intense cromature. Spesso lo spettatore viene assalito da un senso di “claustrofobia” anche per quello che i soggetti inquadrati dicono, oltre che dalla potenza delle immagini. Un documentario raro, necessario perché c’è lo sguardo di una giovane donna nata e cresciuta in questa terra che, anche grazie ad una troupe italo-tedesca ha la possibilità di regalare una visione distante delle cose, per poi riuscire a permettere allo spettatore di scavare con lei nel profondo, più di quanto possano fare tanti servizi televisivi che entrano con violenza alle manifestazioni o nelle fabbriche della regione.