Dal nostro inviato SILVIO GRASSELLI
Michale Boganim viene da Israele, patria di una delle cinematografie più vivaci delle ultime stagioni, e prima del cinema si è formata come studiosa di filosofia e come antropologa; poi è venuto il training da documentarista. Il suo esordio alla regia, Odessa… Odessa, ha fatto il giro del mondo vincendo premi e riconoscimenti in tutti i più autorevoli concorsi di settore. Con La terre outragée, la sua prima esperienza di film a soggetto, Michale Boganim ha scelto di tornare in Russia, anzi in Ucraina, per raccontare la storia di Pripyat, cittadina poco distante da Chernobyl, trasformata in città fantasma già poche ore dopo l’incidente che nella primavera del 1986 sconvolse il mondo dimostrando la potenza devastatrice dell’energia nucleare. Nella narrazione ordinata, nel ritmo perfetto, nella regia controllata e rigorosa sembra non esserci traccia dell’estrosa e brillante esperienza da documentarista dell’israeliana. E se non lo si sapesse prima, nessuno potrebbe riconoscere in questo rifinitissimo lungometraggio le marche di un esordio nel cinema di finzione.
Boganim sceglie, convenzionalmente, di seguire le vicende di due personaggi, un uomo e una donna, e attraverso di loro osservare lo scorrere del tempo e degli eventi, prima nel giorno dell’incidente e poi dieci anni più tardi. Anche in questo rischioso esercizio di salti e intrecci, di andate e ritorni, Boganim sembra non perdere mai il filo, conservando una perfetta lucidità di costruttrice di racconto. Paradossalmente però tutta questa efficienza non impedisce al film di restare ingranaggio inerte: macchina miseramente esatta invece che organismo vitale. Una macchina, tuttavia, dotata di un respiro e di un volto umano. Oltre l’intreccio geometricamente ineccepibile, oltre la puntuale interpretazione degli attori, oltre direzione della fotografia, scenografia e costumi di eccezionale qualità, sta il vero cuore luminoso, la riserva di energia e di senso del film: le immagini ricorrenti dedicate agli agenti atmosferici, al cielo, alle nubi, alla neve e alla pioggia sono il luogo fuori della narrazione, la porzione di sguardo che Boganim conserva per sé, per la propria origine di documentarista, per la propria autentica e forte passione di osservatrice del mondo. E forse anche solo le strade deserte, gli edifici spettrali, la pioggia e il cielo valgono da soli la visione di questo strano esordio.