Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Più conosciuto per i suoi melodrammi d’appendice, da Catene in giù, con la coppia Amedeo Nazzari-Yvonne Sanson, Raffaello Matarazzo annovera tra le sue opere anche un cult (o scult, a seconda dei gusti) che negli anni è andato incontro a una vicenda critica piuttosto singolare. La nave delle donne maledette (1953), a conti fatti, è un fumettone esagitato, che contamina selvaggiamente vari filoni di gran moda in Italia negli anni ’50: per l’appunto il melodramma “alla Matarazzo”, il film in costume ai confini del cappa-e-spada, il film-balletto con parentesi coreografiche, e certi erotismi sottaciuti e sublimati, che qui esplodono per la prima volta in buona evidenza. Recuperato in dvd da Medusa dal 26 settembre nei suoi colori originali, andati perduti nelle rare copie in bianco e nero circolanti in tv, il film di Matarazzo prende le mosse da una vicenda talmente intricata che un suo ipotetico riassunto supererebbe la durata del film. Basti sapere che, dopo un’ingiusta condanna davanti a un tribunale spagnolo del ‘700, un’eroina sventurata (May Britt, breve diva di quegli anni) finisce su un galeone di prigioniere dirette alle colonie per scontare la loro pena ai lavori forzati. E, seguita dal prode Ettore Manni che vuol salvarla, e dalla perfida cugina che l’ha fatta condannare, durante il viaggio in mare la donzella vedrà esplodere una violenta ribellione delle prigioniere, con finale catarsi distruttiva.
A distanza di anni si è aperta sul film una sorta di “caccia alla teoria allegorica più eccentrica”, speculando su proto-femminismo, riflessi di conflitto mistico-ideologico tra comunismo e cattolicesimo, e quant’altro. E’ vero che Matarazzo chiude la vicenda su una conversione generale che annienta il caos scoppiato sulla nave, ma né più né meno ci ritroviamo nel consueto misticismo salvifico che già caratterizzava i suoi melodrammoni più conosciuti. Al di là delle più sfrenate teorie, è interessante invece prendere il film per quel che è: un esempio di contaminazione di generi, affastellati e/o giustapposti per fare cassetta andando incontro indiscriminatamente a tutti i gusti possibili del pubblico. Dopo aver sondato il suo pubblico su “lacrime e sangue” e costumi e scenografie cheap, stavolta Matarazzo scopre che anche qualche centimetro di epidermide femminile può avere il suo buon peso, e si lancia in dettagli iperbolici di seni popputi con tanto di controcampo di marinai in fregola. Così come il sadismo ha il suo perché, e quindi giù di frustate su corpi nudi maschili e femminili. Una contaminazione sfrenata in funzione commerciale. Ovvero, un primo esempio di ciò che nei nostri anni ’70 diventerà una consueta deriva. A fronte di una monotonia visiva spesso disarmante (la macchina da presa si muove per costanti e timide panoramiche in inquadratura frontale, quasi come su un palcoscenico), Matarazzo indugia infatti in sequenze tra le prigioniere ammassate che sembrano anticipare certi sbracati prison-movie al femminile di vent’anni dopo. Insomma, non ci sarebbe da stupirsi se, dopo essersi divorato tutto il nostro cinema anni ’70, Quentin Tarantino trovasse in La nave delle donne maledette un nuovo idolo da venerare. Fosse solo per quel branco di donne violente e autoritarie che, mettendo a soqquadro un galeone spagnolo, sembrano uscite dalla blaxploitation americana.