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Le montagne sussurrano, sospirano le memorie di un mondo in via di estinzione, raccontano le storie che ci siamo dimenticati di ricordare. Questa è la poetica suggestione al centro de La Misura del Confine, secondo lungometraggio del regista Andrea Papini dopo il film del 2008 La velocità della luce, che lo ha affermato all’interno del panorama indipendente italiano. Lì protagonista era un’autostrada, qui l’estremo opposto dell’habitat umano: le nevi e i ghiacci delle Alpi, dove due topografi, uno ticinese e l’altro siciliano, sono chiamati per stabilire a quale Stato appartenga una mummia ritrovata nelle cime che si ergono alla frontiera tra il nostro Paese e la Svizzera. Riuniti con i rispettivi staff in una baita gestita da un calabrese e una toscana, impareranno non solo a superare il confine geografico e culturale che li divide, ma scopriranno anche come l’illustre cadavere risalga al dopoguerra e si tratti della vittima di un feroce delitto sepolto nel tempo.
Rispetto a una location urbana di asfalto e cemento, le meravigliose vette innevate presentano indubbiamente maggiori vantaggi e maggiori difficoltà. Il lato positivo consiste in quel surplus di bellezza e di senso che la contemplazione della natura porta sempre con sé, anche quando mediata dall’occhio della macchina da presa. Il lato negativo è che senza una certa disponibilità economica le condizioni di vita tanto dell’uomo quanto di un film possono risultare abbastanza ostiche. Così è stato per La Misura del Confine, praticamente autoprodotto dalla troupe che si è arrangiata a girare tutto in due settimane, con il cast artistico impegnato non solo a scalare ghiacciai ma anche a trasportare a spalla l’attrezzatura nella neve. “Con il budget di Baarìa avremmo potuto girare più di 100 film come questo”, denuncia senza mezzi termini Papini, sottolineando come la realizzazione di quest’opera sia stata una scommessa dall’inizio alla fine e come senza dubbio con più tempo e più risorse si sarebbe potuto lavorare meglio a tante cose, in primis la caratterizzazione dei personaggi. E viene difficile dargli torto, dato che uno dei difetti principali del film appare proprio la fretta: tanto colpiscono per l’eleganza e la cura dei dettagli i titoli di testa, la colonna sonora e le sequenze per così dire “paesaggistiche”, così la trama da un certo punto in poi si evolve in maniera sbrigativa e un po’ frustrante rispetto alle aspettative create nello spettatore, senza riuscire a bilanciare le varie “anime” del racconto.
Girato per necessità e per scelta in stile quasi documentaristico, La Misura del Confine segue un po’ la linea tracciata negli ultimi anni dalle opere indipendenti e “montane” di Giorgio Diritti come Il vento fa il suo giro – da cui il film di Papini prende a prestito in un ruolo secondario l’attore Thierry Toscan – ma nasce con l’idea di contenere in sé anche elementi di commedia e sopratutto di thriller. Tutti questi generi hanno però le loro regole e i loro tempi, e mischiarli tutti insieme senza lasciarli nemmeno lievitare non sembra sufficiente per ottenere un risultato omogeneo. Succede così che l’affresco antropologico e sociale non si riesca a percepire in tutte le sue sfumature, mentre la parte della detection per scoprire il mistero della mummia risulti troppo debole e improvvisata. La Misura del Confine rimane quindi solo un buono spunto, magari preludio di un altro film sempre indipendente ma meno condizionato dal budget.