Dal nostro inviato Raffaele Meale
Da quando esordì nel 1993 con Azione mutante, l’allora ventottenne Álex de la Iglesia ha risvegliato nel pubblico e nella critica amori e odi epidermici, quasi incontrollabili. Le anteprime stampa dei suoi film ai festival si trasformano sui titoli di coda in vere e proprie arene, terreno di scontro tra chi ne esalta le qualità visionarie e la libertà formale nella messa in scena e la falange dei detrattori, che lo accusano al contrario di lasciarsi sedurre sempre dalla scelta a effetto, prediligendo la via più semplice e solo apparentemente eversiva. In virtù di quanto appena affermato è apparsa particolarmente significativa la reazione degli accreditati al termine di La chispa de la vida (il cui titolo internazionale è As Luck Would Have It) undicesima regia del cineasta spagnolo presentata fuori concorso nella sezione Berlinale Special alla 62esima edizione del Festival di Berlino: qualche applauso, un paio di sbadigli e poco più. Nessuna rissa dialettica, nessun fischio di disapprovazione, neanche la benché minima discussione critica. Un avvenimento sul quale converrebbe forse non glissare con troppa semplicità, perché potrebbe rappresentare la chiave di volta per comprendere fino in fondo un’operazione come quella portata a termine da de la Iglesia.
La chispa de la vida non sembra a prima vista un film del regista di El día de la Bestia e La Comunidad: diversa la messa in scena, che abbandona la ricerca del dettaglio bizzarro per puntare su movimenti di macchina più ariosi e una costruzione dell’inquadratura maggiormente classica, diverso l’approccio attoriale, meno incline a mossette e deformazioni cartoonistiche, diversi infine anche i riferimenti cinematografici. Tralasciando follie disadattate e retaggi di genere, de la Iglesia si rifà alla Hollywood del tempo che fu: La chispa de la vida infatti sembra la crasi perfetta tra L’asso nella manica di Billy Wilder e Quinto potere di Sidney Lumet, da cui riprende alcune intuizioni narrative e soprattutto la riflessione sulla società dei mass media. Peccato che il regista spagnolo non possegga né l’acume sardonico di Wilder né la satira immalinconita di Lumet: il suo cinema, abituato a ritmi e situazioni perennemente sopra le righe, non sempre riesce a gestire con la dovuta attenzione una storia inevitabilmente “immobile” (il protagonista è letteralmente inchiodato al suolo). Il risultato è comunque dignitoso, ma denuncia un’ispirazione qua e là altalenante. Ottimo in ogni caso il cast composto dal comico televisivo José Mota, da Salma Hayek e Fernando Tejero, cui si aggiunge lo storico sodale di de la Iglesia Manuel Tallafé, al lavoro finora su sei lungometraggi del regista. La diatriba ora si aprirà tra coloro che apprezzano questo stile di de la Iglesia e i fan della prima ora, pronti ad andare in brodo di giuggiole per le eresie imperfette ma sinceramente deflagranti di Balada triste de trompeta. Chi ne uscirà vincitore?
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