Dal nostro inviato ALESSANDRO ANIBALLI
A due anni di distanza dalla sua più recente apparizione al concorso della Mostra di Venezia con il terzo capitolo della saga di Tetsuo, il regista giapponese Shinya Tsukamoto torna al Lido, stavolta nella sezione Orizzonti, con Kotoko, racconto partecipe, violento, folle e commovente di una donna che non riesce ad accettare la sua condizione di madre. Interpretato in modo straordinario dalla cantante Cocco, il personaggio protagonista è un coacervo di atti sado-masochistici, una donna che soffre indicibilmente con il suo bambino, adorandolo e odiandolo insieme, e che non accetta alcun rapporto umano. Kotoko si infligge delle ferite, confonde realtà e immaginazione, colpisce con una forchetta qualunque uomo cerchi di avvicinarla (uno spasimante è interpretato dallo stesso regista) e soprattutto, esasperata dai pianti del bambino, è continuamente attraversata dalla paura-desiderio di fargli del male.
Girando in digitale, con colori vividi e realistici, e optando per un evidente low-budget, Tsukamoto ritrova quella caratteristica vena anarchica, insieme vitale e mortifera, che sembrava aver perduto con i suoi ultimi film. Ma il cineasta giapponese ritrova anche una incredibile tensione umanistica che lo porta a compartecipare completamente con il destino del suo personaggio. In Kotoko–Cocco si riesce a incarnare con semplicità e immediatezza l’eterna difficoltà dell’essere madre, senza nascondersi dietro false ipocrisie. Ed è nel consueto coraggio di scelte e di messa in scena che Tsukamoto porta a coerenza il suo discorso: il rapporto madre-figlio è fatto per forza di violenza, sangue, grida, disperazione, terrore e orrore. Ne consegue una regia attraversata da brividi e ondate dove, a momenti di apparente quiete, si susseguono improvvise esplosioni isteriche e disperate, rese con una folle macchina e mano e con una abbacinante distorsione del suono. In tutto questo, forse non sarebbe stata un’eresia mettere Kotoko nel concorso di Venezia 68.