KoreaFilmFest 2010: chiusura con premiazione e con la sete di sangue di Park Chan-wook
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni)
22/03/10 – Il KoreaFilmFest 2010 di Firenze ha chiuso in grandissimo spolvero nella sera di sabato con la premiazione finale e la proiezione dell’ultimo film di Park Chan-wook, “Thirst”, già Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes. Davanti a una sala letteralmente gremita (per l’occasione è stata riaperta al pubblico anche la galleria del cinema Odeon, abitualmente in disuso da diversi anni) il direttore del festival Riccardo Gelli, accompagnato da una parte della giuria ufficiale composta da studenti universitari di cinema, ha infatti suggellato la rassegna definendola “un vero, grande successo”: di pubblico, con notevoli affluenze anche nelle fasce orarie più difficili, di critica e stampa nonché di qualità cinematografica per l’offerta di film e di organizzazione e gestione dell’evento. I due premi – premio della giuria e premio del pubblico – sono andati rispettivamente a “My Dear Enemy” di Lee Yoon-ki e a “Mother” di Bong Joon-ho. Nella motivazione del premio, i delegati della giuria hanno tenuto a sottolineare le direttrici della loro decisione, soffermandosi in particolare sulla capacità di Lee di ridare vita, tramite precise scelte stilistiche, a un soggetto di per sé semplice e molto classico, e sull’opzione dell’autore per un cinema di pochi orpelli e ostentazioni. La scelta del pubblico, invece, si è orientata verso una storia di grande presa emotiva, priva sì di enfasi e insistenze melodrammatiche, ma comunque fondata su uno dei sentimenti umani primigeni, ovvero l’amore materno per un figlio, sopra ogni cosa e a costo di rifiuti (in)consapevoli della realtà.
Proiezione di chiusura extralusso, poi, con “Thirst” di Park Chan-wook, ennesimo capitolo del cinema “prendere-o-lasciare” di un autore attualmente tra i più amati dagli ambienti festivalieri di tutto il mondo. Un genio dell’immagine, dal tocco spavaldamente postmoderno, che assembla di tutto e di più: cinema rigonfio, spesso privo di sintesi, generi dei più diversi frullati insieme, tanto, troppo materiale narrativo, che non sembra esser passato da una ponderata ed essenziale fase di montaggio. E, nel caso di “Thirst”, al fondo di un divertito (e contagiosamente divertente) racconto di un prete cattolico vampiro che scopre e fa scoprire le gioie del sesso a una donzella repressa. Provocazioni concettuali che magari hanno ancora un valore nell’attuale contesto socio-culturale sudcoreano, ma che nel mondo occidentale abbiamo già visto, rivisto, sentito e risentito in tutte le salse, da Bunuel in giù, passando pure per il seriosissimo “Dracula” di Coppola e il barocco “Intervista col vampiro” di Neil Jordan, di questo si è già sentito parlare ampiamente. Ma “Thirst” è un film da gustare sotto un profilo squisitamente estetico, senza curarsi troppo delle facili e talvolta irritanti morali di fondo. La genialità d’immagine di Park è da cercarsi non tanto e non solo in un raffinatissimo gusto figurativo, ma anche nell’estrema spigliatezza con cui l’autore passa da un genere all’altro, noir, horror, commedia, melodramma, dramma etico e civile, in mezzo a una selva di citazioni, volute o meno, di tanto cinema occidentale. La forza autoriale di Park è tale che, eccetto nelle sequenze scopertamente grottesche, si riesce a credere a quei due personaggi in un contesto inverosimile, talvolta si finisce per credere anche al loro melodramma, alla loro folle passione, disperata e senza via d’uscita. Cosicché Park si presenta come un autore davvero personale, che non somiglia a nessuno, che gioca con le convenzioni cinematografiche, come molti fanno, ma secondo metodi e strumenti propri e non interscambiabili con altri. Certo, si esce dalla visione del film un po’ storditi, e abbondano ripetizioni, ridondanze, situazioni riproposte fino allo spasmo, ma rimane anche la netta sensazione di aver assistito a qualcosa di veramente nuovo, benché assemblato su materiale vecchio, per l’appunto, quanto il cinema.
Al prossimo anno.