KoreaFilmFest 2010: “Epitaph” degli Jung Brothers a Firenze, tra horror e psico-melodramma
(Dal nostro inviato Massimiliano Schiavoni))
18/03/10 – Il KoreaFilmFest 2010, che ha dato l’avvio alla sua programmazione lo scorso 12 marzo al cinema Odeon di Firenze e che si concluderà sabato prossimo 20 marzo, quest’anno ha articolato la sua proposta in quattro sezioni di grande spicco: una sezione-concorso (Orizzonti coreani), un’altra sezione di concorso riservata al cinema coreano di produzione indipendente (Independent Korea), una retrospettiva sul cinema di Hur Jin-ho (una vera chicca per cinefili, visto che saranno proiettati tutti i suoi sette film, tutti inediti in Italia) e una rassegna dedicata al macrogenere dell’horror coreano (K-Horror), che assembla in realtà opere declinanti l’horror nei modi più diversi. I due film-evento, ad apertura e chiusura del festival, sono “Take Off” di Kim Yong-hwa, e soprattutto “Thirst” di Park Chan-wook, vincitore del Premio della Giuria all’ultimo Festival di Cannes.
Genere approfondito anche dall’incontro tenutosi ieri con il Maestro Dario Argento, l’horror coreano, nei primi anni del 2000 è venuto a definirsi, poco alla volta, come genere estremamente popolare ed efficace, prima idolatrato da una nicchia internazionale di cinefili, poi accolto da un vero e massiccio successo di pubblico, tanto da dare origine a una serie di remake americani a ruota della tendenza, già ampiamente diffusa, dei rifacimenti tratti da horror giapponesi. Tuttavia, l’horror coreano si conferma, di opera in opera, tendente a narrazioni, tecniche e poetiche dell’immagine piuttosto aliene ai canoni occidentali, ed è sempre più difficile limitare il suo raggio d’azione al puro cinema di genere. Ne è ulteriore prova “Epitaph” degli Jung Brothers, loro opera prima del 2007 vista in questi giorni al Festival, dove si ritrova molto del cinema coreano degli ultimi anni, per quanto attiene alle strategie narrative, alle atmosfere e all’immaginario di riferimento. E’ evidente e dichiarato, innanzitutto, l’omaggio al “cinema dei fantasmi” di ascendenza giapponese, con le sue figure femminili enigmatiche, sospese tra realtà e aldilà. Di strettamente coreano, invece, è in primo luogo la struttura narrativa a incastro, portata in questo caso al massimo grado nella scelta a monte di narrare quattro storie (che poi diventano tre) parallele, secondo una falsa costruzione a episodi. Il racconto è imbastito su una fitta rete di flashback, flashforwards, rimandi interni, e rimandi tra plurime dimensioni di realtà impercettibili e interscambiabili. I nuclei narrativi dei quattro segmenti sono, presi di per sé, semplici, quasi elementari, e rievocano la semplice struttura di racconti popolari su fantasmi e anime nel limbo tra vita e aldilà. Ma ciò che differenzia, in modo sostanziale, l’horror coreano dalla vulgata dell’horror occidentale, risiede nel diverso intento narrativo a monte del progetto: il fine non è lo spavento tout court, bensì la riflessione esistenziale, talvolta metafisica. In tal senso, la costruzione narrativa di “Epitaph” segue canoni non-aristotelici, radicati cioè non su una stringente logica e concatenazione dei fatti (sia pure in una dimensione sospesa e irreale, l’horror occidentale richiede sempre una spiegazione esaustiva e soddisfacente degli avvenimenti), bensì su una vera narrazione onirica, intrapsichica, fatta di associazioni, libere e non, e di allusioni. Come spesso nel cinema coreano, anche in “Epitaph” il quadro si ricompone solo alla fine, ma la “quadratura del cerchio” non è mai lo scopo principale. La sostanza del racconto è data dal radicamento dell’horror in una dimensione prettamente melodrammatica, anzi psico-melodrammatica, ovvero l’orrore narrato è quello della perdita e dell’incapacità di abbandonare i morti dopo la loro morte, è l’orrore del senso di colpa che tiene vivi, dentro di noi, i fantasmi delle persone perdute. Così, da film di genere “Epitaph” si trasforma in opera profonda e meditata, mai banale, con l’unico difetto, comune a molto cinema coreano, dell’eccessiva e algida severità.
Come sempre la confezione è di altissima classe, scaltrissima nel creare attesa, suspense e vera paura senza il minimo effettaccio, con poco sangue e pochi effetti. Le scelte estetiche, la sapiente alternanza tra inquadrature fisse e avvolgenti movimenti di macchina, la puntuale eleganza di fotografia e montaggio, rispondono all’eccellenza di una scuola cinematografica nazionale che ha ormai raggiunto una sua poetica solida e riconoscibile. “Epitaph” si concede anche un paio di citazioni dal cinema occidentale, soprattutto un ricorrente omaggio a “Psyco” di Hitchcock, citato pure in colonna sonora, ma resta un ulteriore esempio di una modalità horror preziosa e unica al mondo. Non appare un caso che, a presenziare alla sezione K-Horror, sia stato chiamato Dario Argento. Nessun altro, nell’horror occidentale, ha prodotto un cinema altrettanto sospeso, alogico, “anti-aristotelico” e votato a una “poetica delle immagini” quanto lui.