La vicenda raccontata nel cartoon Justin e i cavalieri valorosi va a recuperare le dinamiche classiche della fiaba: la figura del cavaliere, quella del drago da combattere e quella della principessa da salvare. Dinamiche elementari che non potevano non avere come sfondo una dimensione medievale con tanto di monaci, maghi e taverne in cui rifocillarsi. Su questo canovaccio la Dreamworks ad esempio ha costruito una saga come Shrek, aggiornando e spiazzando le aspettative con una serie di ribaltamenti di cliché, a partire per l’appunto dal suo protagonista.
Non era però questa l’ambizione di Justin e i cavalieri valorosi, quanto quella di partire da un retroterra sicuro come la “tradizionalità” del racconto – lanciando qua e là qualche timido aggiornamento (la taverna con dei tratti da fast food) – per poter puntare decisamente alla vera ambizione: quella produttiva.
Realizzato con 30 milioni di dollari, infatti, Justin e i cavalieri valorosi è il tentativo da parte del mondo dell’animazione spagnola di lanciarsi in maniera decisa sul mercato internazionale. Un tentativo per certi versi simile a quello che sta provando a fare in Italia Iginio Straffi con il suo studio Rainbow, ma che ancora una volta è la testimonianza di come il cinema europeo, da Luc Besson in giù (basti pensare alla sua saga dei Minimei), non può puntare all’eccellenza tecnico-produttiva delle major hollywoodiane. Laddove infatti si rinuncia all’inventività, all’originalità del racconto e/o del tratto disegnato o a qualsiasi accenno di artigianalità, ecco che arriva un film come Justin e i cavalieri valorosi, completamente realizzato al computer, con i volti dei personaggi quasi privi di espressività e con il movimento reso in maniera meccanica e non fluida (basti vedere in tal senso quella che dovrebbe essere la fluente chioma canuta dell’anziano cavaliere cattivo e che invece appare come una specie di blocco di granito).
Certo, la Kandor Graphics – questo lo studio che ha realizzato il film, mentre il regista è Manuel Sicilia – ha provato a fare davvero le cose in grande e a testimoniarlo vi è la firma di Antonio Banderas, che ha stretto un contratto con loro anche come produttore e dà la voce a uno dei personaggi del film; così come a testimoniarlo vi è il fatto che il film sia stato realizzato in inglese, chiamando quali doppiatori d’eccezione, oltre allo stesso Banderas, anche Rupert Everett, Alfred Molina e scegliendo come voce per Justin quella di Freddie Highmore (non a caso protagonista della trilogia di Besson dedicata ad Arthur e il popolo dei Minimei). Eppure, per mettere in piedi questa macchina produttiva, Manuel Sicilia e i suoi collaboratori si sono dimenticati dell’aspetto fondamentale di un cartoon: la dimensione e l’atmosfera del fiabesco, la capacità di far sognare e quella di potersi lasciare andare a una spensieratezza bambinesca.
Justin e i cavalieri valorosi è infatti assolutamente privo di quella “consapevole ingenuità” favolistica di norma rivolta a un pubblico di bambini – e in tal senso stanno lì a dimostrarlo gli occhieggiamenti maliziosi che giocano con le scollature dei personaggi femminili (anche in questo simile alle operazioni di Straffi) – ma allo stesso tempo è privo della tempra necessaria per rivolgersi a un pubblico di adulti, laddove i meccanismi della storia lasciano alquanto a desiderare, lo humour è elementare (giusto un po’ di slapstick e niente più) e l’animazione, per l’appunto, appare tutt’altro che perfetta.
Continuando di questo passo e proseguendo imperterriti su questo terreno di produttività sfarzosa, la sfida con Hollywood è destinata ad essere rimandata ad libitum.
Alessandro Aniballi per Movieplayer.it Leggi