Perdonate la chiave singolare, ma Il labirinto del fauno di Guillermo Del Toro, col suo ammiccare intorno a violente fantasie generate da società violente e repressive, sembra una tela adatta per parlare di Jess Franco e della sua sfrenata libertà espressiva. Scomparso oggi a 82 anni, l’autore spagnolo si è da sempre collocato in una sorta di “terra di nessuno” espressiva, tanto spericolato e sui generis quanto impervio in ottica d’inquadramento critico. Anzi, diremmo che Jess Franco costituisce una delle dimostrazioni più efficaci di quanto siano sostanzialmente inutili, se non dannose, le classificazioni di genere, i confini tra di essi, secondo vecchie griglie di una vecchia critica. Il cinema è solo (e nientedimeno che) cinema, ovvero una composizione/conflitto tra immagine e suono, tra immagini e immagini, tra suoni e suoni. Questo serve talvolta a raccontare qualcosa. Cosa? Le cose più disparate, spesso accumulate nello stesso film in maniera schizoide. Su cinquant’anni di carriera, Jess Franco ha girato almeno 170 film, spaziando dal no-budget a produzioni quantomeno “professionali”, dal cinema narrativo al più estremamente antinarrativo (o iper-narrativo, ovvero il conflitto di più figure, vicende, storie e registri nello stesso film), dagli attori professionisti ai più improvvisati e sguaiati non professionisti del porno.
Cinema di serie B, porno, erotico, horror, porno-horror… Nella critica le etichette si sono sprecate per tentare di dare una cornice univoca alla vena autoriale di Franco. Intento ammirevole, poiché condotto anche in una logica di sua rivalutazione e nobilitazione artistica. Ma questo presuppone un giudizio a monte semplicemente non veritiero, ovvero che il cinema di Franco sia una “fertile serie B”. In realtà il suo cinema finisce per trovarsi davvero al di sopra delle parti. Una volta depurato lo sguardo dalla percezione del kitsch (che peraltro è dimensione espressiva a sua volta pertinente all’autore), è praticamente impossibile ridurre a semplice “caso eccentrico e curioso” l’insieme di un’opera che utilizza, ad esempio, la musica classica in preziosissime combinazioni estetiche con le immagini. Così come la ricerca sul suono, che talvolta riconduce il cinema di Franco alle meraviglie primigenie del muto, testimonia una solidissima consapevolezza delle potenzialità espressive del cinema, e soprattutto uno spirito assolutamente pioniero in direzioni sperimentali. Quentin Tarantino, si sa, è soggetto talvolta a idolatrie bizzose e un po’ arbitrarie. Nei confronti del cinema di Jess Franco ha invece un duraturo rispetto del tutto sensato, e stilisticamente si tratta forse dell’autore del passato a lui più congeniale. Nel fiume di cinema che Jess Franco ha realizzato è praticamente impossibile individuare in modo tradizionale il suo “film della vita”. Si tratta di materiale filmico spesso anche rabberciato e rimontato in chiave hard dalle singole distribuzioni nazionali (in Italia accadeva regolarmente coi suoi film degli anni ’70). Semmai è giusto ricordare il rapporto costruttivo con Orson Welles, per cui fu regista di seconda unità in Falstaff (1965) e dal quale, attraverso Oja Kodar (che poi si pentì), ereditò il progetto di Don Quijote (1992), ultimato in notevole stravolgimento degli intendimenti wellesiani. Il labirinto del fauno, insomma: un regime repressivo di profondo conformismo e puritanesimo produce una forza uguale e contraria, un’opposizione feroce e radicale, l’esplosione degli interdetti, dell’arte e dei suoi schemi e confini convenzionali. Jess Franco.
MASSIMILIANO SCHIAVONI