Jane Eyre

22/09/11 - Ennesima trasposizione del romanzo di Charlotte Bronte che nemmeno il talento di Michael Fassbender solleva dall'incertezza.

I romanzi delle sorelle Bronte sembrano tornati di moda, almeno al cinema: dopo le Cime tempestose di Emily, viste a Venezia per la regia di Andrea Arnold, arriva in sala Jane Eyre, trasposizione del celebre romanzo della sorella Charlotte, più e più volte portato al cinema (celebre la versione del ’43 con Orson Welles), stavolta ad opera del giovane Cary Joji Fukunaga. Ma il risultato, in questa occasione, non prende mai alcuna direzione coerente. La trama è arcinota: Jane è un’orfana maltrattata, cresciuta in un rigidissimo collegio che, quando esce, trova lavoro come istitutrice a casa dello scorbutico Rochester. Ma il rapporto di diffidenza tra i due diventerà presto una passione sconveniente. Moira Buffini adatta il romanzo tra melodramma e noir gotico, cercando di far emergere un certo spirito dickensiano, ma non riesce a rendere il film poco più che un’illustrazione.

All’inizio, infatti, il racconto comincia ostentando una certa “modernizzazione” del tocco, con flashback arditi e secchi, stacchi ellittici e uno stile mobile, nervoso, sporco, giocato sui fuori fuoco e la macchina a mano. Ma dopo nemmeno venti minuti, e non se ne capisce bene il perché, si assesta sia come narrazione, più piatta, tradizionale e non particolarmente avvincente, sia nello stile, che si fa sempre più vicino alle corrette trasposizioni BBC (che qui produce), eleganti, ma anche fredde. E queste indecisioni e incoerenze spengono i sussulti del film: il tema dell’uguaglianza sociale e affettiva non affiora, la regia perde la possibilità di avere una sua forma peculiare e il cuore nero della storia sembra affidato soltanto alla fotografia, tra l’altro molto bella, di Adriano Goldman. Nemmeno gli attori riescono a scaldare il cuore dello spettatore, e se Mia Wasikowska se la cava con sufficiente impeto, Michael Fassbender (dopo Shame, l’attore del momento) non rende la passione di Rochester come sarebbe richiesto. E spegnere il pathos e l’ossessione del romanzo, è una sorta di peccato mortale nei confronti dell’idea stessa del romanticismo, romanzesco e non.

EMANUELE RAUCO

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