Clint Eastwood prosegue la sua personale indagine su luci e ombre dell’indomito spirito americano e con J. Edgar affronta il ritratto di uno degli uomini più temuti, discussi e detestati d’America: John Edgar Hoover. Fondatore del Federal Bureau of Investigation, del quale restò alla guida per oltre cinquant’anni, Hoover fu il primo a istituire la prassi delle indagini scientifiche e a raccogliere un inquietante archivio (poi andato perduto) di fascicoli personali sugli uomini più potenti d’America, presidenti compresi. Agendo nel nome dell’americano medio per difendere il suo sogno di benessere con villino monofamiliare e station wagon in garage, il direttore del Bureau perseguì criminali e dissidenti politici, indisse una vera e propria crociata contro le Pantere nere, il clan dei Kennedy, Martin Luther King e i bolscevichi. Lo sceneggiatore premio Oscar per Milk Dustin Lance Black ha composto una partitura serratissima, molto dialogata e ricca di eleganti e ben calcolati flashback e flashforward, una base solida su cui Eastwood intesse un biopic privo di quei cliché che di solito funestano le biografie filmate. Non vi è traccia infatti in J. Edgar di traumi infantili creati ad hoc per giustificare le ossessioni dell’Hoover adulto e il rapporto del protagonista con la madre (interpretata da Judi Dench) è tutto all’insegna di un realismo scevro da cadute di stile. Fedele adepto del pragmatismo, Eastwood ci mostra i fatti nudi e crudi, ma sceglie di esporli da un punto di vista molto particolare: quello di Hoover stesso. Dimenticatevi dunque quanto avete letto nei romanzi di James Elroy, quello che si vede nel film è Hoover secondo Hoover: la classica ascesa del self made man, non scevro da debolezze (si vede la scarsa propensione all’azione sul campo), che non si astiene da metodi poco ortodossi, ma è pronto a sacrificare la propria vita privata in difesa del suo ideale di giustizia.
Sarà forse a causa del suo protagonista, un ottimo Leonardo DiCaprio, capace di incarnare Hoover dai 19 ai 74 anni, ma Eastwood appare a tratti fin troppo affascinato dal suo personaggio e lascia cadere in sordina alcune spinose questioni che lo riguardano: la tossicodipendeza è malcelata dietro alle quotidiane iniezioni di un misterioso cocktail di vitamine, i dossier inventati di sana pianta per ricattare i potenti sono pressoché assenti e infine restano a un livello di semplice allusione tutti gli strumenti di propaganda utilizzati da Hoover per plasmare l’opinione pubblica. Due sequenze speculari disvelano però, perlomeno a un pubblico smaliziato, proprio l’ingerenza del Bureau sull’industria hollywoodiana: se infatti al principio degli anni ’30, in piena depressione economica, il Nemico Pubblico (The Public Enemy, 1931) incarnato da James Cagney viene accolto dal pubblico in sala come un eroe, ecco che lo stesso interprete nel successivo La pattuglia dei senza paura (G’ Men, 1935) incarna un agente dell’FBI riscuotendo altrettanto plauso, segno indelebile che l’ascesa del Bureau ha riplasmato l’opinione pubblica. Molto resta dunque enunciato tra le righe, quello a cui parla Eastwood è evidentemente un pubblico “adulto”, che conosce già la Storia degli Stati Uniti e al quale lui si sente libero di proporre una forma di autobiografia di Hoover, figlia del suo egocentrismo e della sua cieca autoesaltazione. A ridimensionare il personaggio ci pensa però, nel film, il compagno di vita e di lavoro Clyde Tolson (Armie Hammer), in un toccante dialogo rivelatore che ha luogo verso la fine della pellicola. Sebbene sia lontano dall’essere un’agiografia, J. Edgar promette comunque di far discutere, rivisitando una vasta porzione di storia americana, non senza aprire spiragli sul passato recente: impossibile infatti non associare alla strategia della paura (il dissidente come possibile terrorista) messa in atto da Hoover la politica di Bush Jr. all’indomani dell’11/9.
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