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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Vaghe stelle dell’Orsa…” (1965) di Luchino Visconti: tragedia e letteratura, miti archetipici e riletture esplicite per uno dei Visconti meno ricordati
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
28/12/10 – Al festival di Venezia Luchino Visconti vinse il Leone d’Oro una sola volta, e, per una qualche forma di ricompensa dopo le polemiche seguite alla mancata assegnazione a Rocco e i suoi fratelli (1960), gli attribuirono il massimo premio forse con un eccesso di sbadataggine, perché fu premiato uno dei suoi film unanimemente considerati meno riusciti: quel Vaghe stelle dell’Orsa… disperso da anni nella memoria collettiva, poco visto, pochissimo riproposto, quasi per nulla amato. Film “minore”, che tuttavia pare nascere come tale già negli intenti dell’autore, anzi l’ultima testimonianza di un Visconti intimo e ripiegato in dimensioni più contenute, prima dell’esplosione decadente col “ciclo teutonico” degli anni successivi.
In realtà, se pure le dimensioni produttive sono più ridotte del consueto Visconti anni ’60, anche Vaghe stelle dell’Orsa… rispetta in tutto e per tutto la poetica dell’autore che si veniva formando da Rocco in poi, con una progressiva marcia d’avvicinamento a un’impaginazione sempre più algida, perfezionistica, letteraria e distante. Appassionato rilettore di universali archetipi culturali e letterari, stavolta Visconti affronta di petto il mito di Elettra e dell’Orestea, tramite un approccio che non trascura nemmeno la rilettura già moderna che ne dette Eugene O’Neill in Il lutto si addice ad Elettra. E’ un cinema sempre più vistosamente lontano dagli esordi dell’autore, che pure aveva mostrato fin da subito una tendenza centrifuga rispetto al canone neorealistico di cui fu erroneamente definito cofondatore, e che negli anni ’60 perviene alla codifica di un linguaggio personalissimo, magari non sempre efficace ma assolutamente individuale. Un cinema “altero”, radicato senza mascheramenti nel teatro classico, pure nei suoi tempi, ritmi e convenzioni verbali, che tuttavia non si trasforma mai in teatro filmato grazie alla profonda ricerca sul mezzo cinematografico.
Visconti è famoso (e oggetto di critica anche tra i suoi contemporanei) per aver dato, dai ’60 in poi, massima espressività allo zoom, di cui già in Vaghe stelle dell’Orsa… si avverte un largo uso, e che raggiungerà il parossismo nelle varie nausee visive di La caduta degli dei (1969). Quel linguaggio enfatico, in effetti, si rivelerà presto inefficace e, purtroppo, caratterizzerà tanto brutto cinema italiano degli anni ’70. Ma è innegabile che, almeno in Vaghe stelle dell’Orsa…, tale meccanismo si mostri estremamente funzionale, rendendo fluido il racconto in una sapiente alternanza, in montaggio, di zoom, primi piani e macchina da presa “nervosa” quando il testo lo richiede (vedi la sequenza angosciosa dell’incontro di Sandra con la madre). Certo, è un cinema lontanissimo, pure dalla realtà, con una sceneggiatura ostentatamente raffinata e di facile psicologismo, talvolta rozzo. E’ reso fin troppo esplicito, esteriore e didascalico, ad esempio, il legame incestuoso tra Sandra e Gianni. Così come, se pure il complesso di Elettra attiene all’universale umano, è anche vero che non si avverte la “necessità” di una tale rilettura, tanto rimane conchiusa in sé, asfittica, non aperta a una reinterpretazione bensì radicata in una pura riproposizione in chiave appena ammodernata. Ciononostante, resta un cinema individuale, diverso, che non ha lasciato vere eredità a lungo termine. E di incomparabile qualità visiva.
Lo zoom espressivo di Luchino Visconti e l’altissima fotografia in bianco e nero di Armando Nannuzzi: