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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Un marito per Anna Zaccheo” (1953) di Giuseppe De Santis: forme “intorno” al canone neorealistico, ma secondo una poetica molto personale
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
08/03/11 – Insieme ai nomi di Visconti, Rossellini e De Sica riguardo alla fondazione della nuova retorica espressiva del neorealismo, in ambito critico è stata spesso affiancata anche la figura di Giuseppe De Santis, per il quale tuttavia si è quasi sempre operata una giusta distinzione estetica. La sua opera più famosa e probabilmente di maggiore successo, Riso amaro (1949), mostra infatti una notevole e ardita contaminazione estetica, ovvero i materiali del neorealismo appaiono in qualche modo, anche intuitivamente, già trattati come “puri materiali”, e riletti tramite strutture narrative pertinenti al cinema statunitense coevo. Il dramma realistico, condotto con piglio quasi documentaristico, e il noir, le mondine e un furto di gioielli. Talvolta, nel cinema di De Santis è stata ravvisata una sorta di volgarizzazione del neorealismo. Sicuramente il piglio popolare e spettacolare configura una delle priorità dell’autore, ma Un marito per Anna Zaccheo mostra anche tutt’un altro versante di ricerca e sperimentazione, che flirta ancora con i materiali bassi della narrativa popolare ma li rilegge in una chiave estetica nuova e del tutto originale.
Tramite la storia della ragazza vittima della propria bellezza, infatti, De Santis conduce un discorso molto esplicito, fin troppo, e in anticipo sui tempi, sulla condizione femminile, o meglio sulla percezione culturale di ruolo, collocazione socio-politica e prigionie individuali della donna nell’Italia del tempo. L’impianto narrativo è molto lontano dalla contaminazione operata in Riso amaro.
Ridotto all’osso, il materiale del racconto è da Matarazzo d’epoca: il desiderio di un buon matrimonio frustrato dalla sventura, la donna che perde il proprio sogno d’amore a causa di una serie di “fetenti” che si approfittano di lei, l’intreccio svolto tramite picchi melodrammatici (c’è spazio anche per un tentato suicidio). Ma, pur rimestando su materiali noti e lacrimosi, De Santis li depotenzia totalmente sul piano emotivo, mirando a una narrazione antidrammatica ed episodica. Vi è molto di programmatico, di didascalico e di dimostrativo, è vero. La voice over conduce in modo rigido il discorso filmico verso una lettura totalmente univoca, e l’accumulo di disgrazie appare talvolta meccanico, finalizzato con eccessiva evidenza a un contenuto “a monte”. I procedimenti estetici, per la loro natura così dichiaratamente “militante”, richiamano non tanto il neorealismo, quanto il Realismo Socialista (non a caso il film fu molto ben accolto in Unione Sovietica). Ma la chiave personale e salvifica, il valore aggiunto di Giuseppe De Santis, sta tutta nella ricerca visiva. Napoli e i suoi vicoli sono attraversati tramite lente carrellate, meditative e veristiche, la fotografia tende a tonalità cupissime, una sorta di “grigio-e-nero”. E si avverte la mano di Cesare Zavattini in sede di sceneggiatura, poiché il passo narrativo richiama da vicino la poetica del pedinamento a lui pertinente.
Il film non è di sicuro il migliore di De Santis, data anche la prova inespressiva e bamboleggiante di Silvana Pampanini, ma mostra un autore diverso da come di solito la storia del cinema l’ha identificato. Popolare nei materiali, sì fortemente ideologico, ma anche capace di narrazioni essenziali e non enfatiche, tutte centrate sulla ricerca visiva in funzione di un’estetica.
Il corteggiamento del più viscido dei seduttori di Anna Zaccheo, un ottimo Amedeo Nazzari: