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Percorsi italiani nella (s)memoria cinematogrfaica collettiva
“Speriamo che sia femmina” (1985) di Mario Monicelli: impennata anni ’80 di un maestro, grande successo di pubblico per un modo di fare cinema dissoltosi nel “decennio inesistente”
(Rubrica a cura di Massimiliano Schiavoni)
23/11/10 – E’ piuttosto arduo, dopo 25 anni, comprendere il grandissimo successo di pubblico, all’epoca, per un film come Speriamo che sia femmina (ottavo incasso della stagione 1985-86). Film popolare, d’accordo, costruito su una solidissima tradizione di scrittura e realizzazione, ma secondo logiche che già a metà anni ’80 incontravano enormi difficoltà a reggersi in piedi e a trovare una platea interessata. Un (in)consapevole “cinema di resistenza” sotto il bombardamento incrociato del cinemaccio comicarolo, della progressiva scomparsa di una vera industria e della nascente tv commerciale. Oltretutto, il film di Monicelli si ancorava sì e no alle canoniche convenzioni della commedia all’italiana. Qua e là ritroviamo un consueto humour garbato, qualche macchietta più accentuata (il personaggio del rimbambito zio Gugo, piuttosto gratuito nell’economia narrativa del film), l’abituale amarezza di tanta commedia nostrana, ma l’impianto è da coproduzione europea, e una diffusa malinconia crepuscolare domina su tutto. Tira aria di divismo impensabilmente (per i giorni nostri) internazionale. Nientemeno che la bergmaniana Liv Ullmann come protagonista. E poi Catherine Deneuve, Philippe Noiret, Bernard Blier… Personaggi ormai abituali nelle nostre produzioni anni 70-80, ma che si muovono sotto l’attenta direzione di uno sguardo non provinciale, e nemmeno, per converso, “in formato esportazione”. Un miracoloso punto di fusione creativa, dove all’interno di una struttura tutto sommato romanzesca tutto o quasi risulta credibile, anche vedere Giuliano Gemma che flirta con Liv Ullmann.
A conti fatti, è anche molto difficile inquadrare il film come prodotto dei suoi anni. Il racconto costeggia i mutamenti sociali pertinenti alla sua epoca, ma solo tangenzialmente: l’adesione al mondo femminile è “a monte” e poco motivata, i personaggi maschili sono condannati a prescindere secondo una scelta più ideologica di quanto sembri, così come è ideologico, facilone e posticcio il conflitto campagna-città, giocato a favore, ma senza troppa convinzione, di una cultura contadina e matriarcale in via di sparizione a causa dell’inurbamento modaiolo (e le protagoniste, tuttavia, non rinunciano per un secondo alle loro strepitose permanenti anni ’80…). Quel poco che il film racconta del “decennio inesistente”, poi, lo racconta anche maluccio (la parentesi del concerto di Ron, come testimonianza di nuove tendenze di costume, è assolutamente pretestuosa). Di fatto, però, tutto questo non pare il centro d’interesse del racconto, che si giustifica in quanto tale, che tenta per lo più di avvitarsi intorno a conflitti psicologici e familiari fuori dal tempo e tendenti all’universale. Liv Ullmann porta con sé quel tanto di Bergman che in lei è innato in un conflitto madre-figlia che, con accenti ovviamente più popolari, restituisce grandi pezzi di recitazione fondati su qualche credibile verità umana.
Che cosa, dunque, condusse al miracolo della sala piena? Un po’ di divismo, una certa capacità di pensare ancora in grande, moltissimo mestiere, e, soprattutto, la sensazione di assistere a un grande film, che, forte di una solidissima struttura da romanzo tradizionale, pareva raccontare grandi verità sulla vita. Che magari grandi verità non erano, e forse nemmeno verità. Ma che avevano la forza di una convincente verosimiglianza.
La colonna sonora di Nicola Piovani, una delle sue più riuscite: