Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Quasi mai Ernest Borgnine, scomparso pochi giorni fa, ha trovato nella sua sporadica seconda carriera italiana occasioni degne della sua portata d’attore. A cavallo tra anni ’50 e ’60 i rapporti cinematografici tra Italia e Stati Uniti appaiono piuttosto frequenti, ma spesso secondo un concept d’esportazione. Film pensati e girati in Italia, ma concepiti anche per un pubblico americano, dove la fanno da padroni il colore locale, il folklore, il pittoresco. Una di queste occasioni fu Il Re di Poggioreale, film interamente costruito sul carisma della star Borgnine, privo di personalità autoriale quanto basta per piacere anche al di là dell’oceano (alla regia troviamo Duilio Coletti, buon mestierante e nulla più), e animato oltretutto da un’ambiguità morale che non si solleva mai a riflessione, ma si nutre al contrario di toni agiografici lontani da qualsiasi ombra del dubbio. Il personaggio di don Peppino Navarra, realmente esistito nella Napoli presidiata dagli americani alla fine della Seconda Guerra Mondiale, è storicamente molto interessante. Una figura a metà tra il guappo e il Robin Hood, che si adoperò per il proprio interesse e per la propria città, secondo quel profilo inquietante purtroppo noto di “benefattore dei miserabili” all’interno di un codice di comportamento criminoso. Il gran mogol Dino De Laurentiis, produttore e ideatore del film, scelse di farne un campione dei maggiori luoghi comuni partenopei, di tutti quei parametri socio-affettivi fissi che tanto colpivano il pubblico americano riguardo al nostro paese, e che tuttora sembrano tra i pochi orizzonti concepibili oltreoceano sull’Italia e il suo popolo.
Il Re di Poggioreale li assembla tutti, uno dopo l’altro: da una gara di pizza tra italiani e soldati americani che si tramuta in una grottesca coreografia a suon di musica folklorica, al culto di San Gennaro, a tutta la retorica di casa, famiglia e Chiesa, al melodrammone popolare ai limiti della sceneggiata. Ernest Borgnine gigioneggia da par suo, tra gestualità ostentate e infiniti sorrisi, affiancato da Keenan Wynn, altra star americana assoldata a testimoniare la sontuosa grandeur produttiva di De Laurentiis. Ma in un film tutto assemblato a blocchi di marmo, pesante, episodico e superficiale, sorprende che un protagonista così ambiguo sia trattato con tanta bonarietà, osservato con sguardo benevolo e indulgente. Borgnine disegna il suo personaggio con tratti così amabili da annullare qualsiasi riflessione sulla lugubre mescolanza tra mozione degli affetti e criminalità alla base di molti guasti italiani ancora tristemente attuali. Tra gli accreditati in sede di sceneggiatura troviamo addirittura John Fante, autore letterario da sempre interessato all’antropologia italoamericana. Il film di Coletti, tuttavia, fugge decisamente da qualsiasi vero affondo, affidandosi al compiacimento di una platea in cerca di facili specchi. Una sorta di sottogenere popolare: il film per nostalgici emigranti. Ernest Borgnine, che pure appare visibilmente appassionato al proprio personaggio, meritava di meglio.