Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
E così finisce anche un’altra lunga attesa per gli appassionati di cinema italiano. Come già è accaduto qualche mese fa per Il conformista di Bertolucci, adesso è finalmente il turno della tanto annunciata, e sempre rimandata, uscita in dvd di Quattro mosche di velluto grigio, disponibile per 01 dal 18 aprile, titolo argentiano assurto a mito proprio per la sua scarsissima reperibilità. Dall’ultimo passaggio tv nel lontano 1991, il film è rimasto infatti incastrato in una questione di diritti, e solo pochi anni fa è ricomparso in dvd in un’edizione tedesca. Fino al recente sblocco della diatriba legale e alla sua prima edizione italiana. Spesso considerato l’anello più debole della “trilogia degli animali” tramite la quale Argento esordì alla regia nel 1970 con L’uccello dalle piume di cristallo (1970) (il secondo capitolo è il successivo Il gatto a nove code, 1971), in realtà Quattro mosche di velluto grigio si discosta già in buona parte dalla struttura dei primi due “gialli” dell’autore romano. Se di debolezza si tratta, ciò in parte è riconducibile al work-in-progress che era in corso negli strumenti espressivi di Argento, all’emersione cioè di caratteristiche che saranno messe a punto con maggiore rigore in opere successive.
Sparisce infatti, a poco a poco, la narrazione logica da giallo, spariscono le strettoie di causa-effetto su cui si fonda il genere, soprattutto se declinato secondo la struttura “whodunit”, a cui Argento non ha quasi mai rinunciato. Ciò che prevale, in Quattro mosche di velluto grigio è un farsi beffe della logica, dei rapporti stringenti tra gli eventi. Un farsi beffe, in fondo, del cinema rigido e codificato, in favore di un’espressività che si radica tutta sulla forza dell’immagine, sull’accumulo rapsodico, in una dimensione marcatamente onirica, di destabilizzazioni visive. Argento approda dunque con questo titolo ad un cinema che parla molto di se stesso e che si preoccupa sempre meno dei materiali narrativi utilizzati. In tal senso, Quattro mosche si configura come un’evoluzione rispetto a L’uccello dalle piume di cristallo e Il gatto a nove code. Il racconto è frantumato, “disturbato”, apre mille strade che si richiudono su se stesse, fa ripartire filoni narrativi a metà del suo percorso (si veda il detective gay, chiamato in causa dopo quasi un’ora di proiezione, o la cugina di Nina, personaggio assolutamente “inutile” che intreccia un flirt assurdo col protagonista), che culminano tutti nello stesso vicolo cieco: un omicidio. L’omaggio più evidente è qui al cinema classico – non a caso il protagonista, Roberto, abita in via Fritz Lang – che si trasforma, nella prassi filmica, in una dichiarazione d’estetica. Il cinema di Argento, infatti, richiama da vicino più il modello langhiano che quello hitchcockiano: basti vedere il gusto per le inquadrature vuote e geometriche di paesaggi spettrali, la sospensione di realtà in cui i personaggi si muovono, la macchina da presa utilizzata come “personaggio vivente”, come occhio pulsante tra lo spettatore e il film. Poi, certo, la struttura “whodunit” costringe stavolta l’autore a uno degli scioglimenti più deboli e artificiosi di tutta la sua filmografia, con annesso interminabile spiegone da parte dell’assassino. Ed è mal sostenuta, oltretutto, da un duo di protagonisti, Michael Brandon e Mimsy Farmer, non propriamente eccezionali. Ma il linguaggio argentiano ha già una sua marca ben riconoscibile che spazia dalle bizzarre parentesi comiche (affidate stavolta a Oreste Lionello e Bud Spencer) all’inesauribile ricerca tecnico-visiva, che in questo caso spinse Argento a ricorrere alla Pentazet, un nuovo tipo di macchina da presa che permetteva take fino a 36.000 fotogrammi al secondo. Ma che approda anche a quel gusto, tutto personale, di mettere in scena balletti di personaggi ridicoli, per vederli sadicamente morire uno dopo l’altro.
Il trailer originale: