Italian Graffiti – Percorsi italiani nella (s)memoria cinematografica collettiva a cura di Massimiliano Schiavoni
Brutale come molti degli spaghetti-western, Navajo Joe si colloca a metà tra il prodotto di serie e la curiosità d’epoca, soprattutto per la partecipazione in veste di protagonista di Burt Reynolds, agli esordi nel mondo del cinema dopo una breve carriera come giocatore di football americano, interrotta a causa di un infortunio. Poco prima delle derive intellettual-politiche (il cosiddetto “western sessantottino”) e ancora lontano dalla contaminazione con la commedia, il film di Sergio Corbucci si presenta come un perfetto esempio di spaghetti-western serio, stringato, che aderisce in pieno alla neo-convenzione dettata da Sergio Leone e dalle decine di suoi epigoni. Non si tratta propriamente di un prodotto di serie B, quanto piuttosto di una diretta filiazione industriale, addirittura sostenuta dalla produzione di Dino De Laurentiis, per la prima volta alle prese con i cowboy e gli indiani di Almerìa, di Campo Imperatore o del bosco di Manziana. Come molti dei film derivati dall’ondata leoniana, anche Navajo Joe (riproposto da Terminal Video in dvd e blu-ray a partire dal 13 giugno) stringe decisamente i tempi narrativi rispetto al modello. O meglio, le dilatazioni epiche e ieratiche sono conservate per pagine di grande suspense, ma all’interno di un progetto narrativo più rapido e di consumo.
Fernando Di Leo, che si occupò della sceneggiatura insieme a Piero Regnoli, pare influenzare in qualche modo anche le scelte registiche di Corbucci, con quel ricorso insistito ai contre-plongées e alle disinquadrature, così come appartiene a Di Leo il trattamento riservato alla violenza, non trasfigurata ed epicizzata alla Leone, bensì narrata in modo secco e diretto. Veri pugni nello stomaco portati alle conseguenze più truci: donne e bambini non sono risparmiati, e la storia prende l’avvio da uno scalpo che probabilmente ha entusiasmato Quentin Tarantino, dichiarato cultore di Navajo Joe. Un notevole elemento di novità è dato dalla figura protagonista, un indiano ribelle intento a massacrare il manipolo di banditi che ha trucidato la sua tribù. Idea narrativa proposta da Corbucci e Di Leo nel 1966, ovvero con netto anticipo sui western americani revisionistici, come Soldato blu (1970) di Ralph Nelson o Il piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn. Ma tranquilli, la trovata di Navajo Joe resta tale. Si tratta in realtà di una pura e semplice rilettura astratta, tanto per variare di un minimo un copione già abusato in pochi anni di sfruttamento commerciale. L’indiano di Burt Reynolds non è altro che un riaggiornamento etnico dell’eroe solitario e senza nome, ieratico e vendicativo, cucito addosso da Leone a Clint Eastwood. Una “causa degli indiani d’America” non è nemmeno evocata, se non in un paio di battute didascaliche e a buon mercato. Resta di notevole interesse, invece, la figura del cattivo, il Mervyn Duncan impersonato da un mefistofelico Aldo Sambrell, che odia sia bianchi sia indiani, perché mezzosangue con un passato di discriminazioni infantili. Un cattivo psicotico, scisso e disturbante, che incarna una volta di più i caratteri più specifici del western italiano. Nelle location italiane e spagnole non si rievocava un modello “storico”, bensì un modello astratto e autoreferenziale, in cui la violenza si tramuta in uno specchio universale di fantasmi archetipici.
Il trailer americano: